Da tempo sono iscritto a Greenpeace. Dal 2009 ho cambiato la mia
auto a benzina (che ancora mi avrebbe accompagnato per anni), per comprarne una
a metano. E la uso il meno possibile. Preferisco la bicicletta, i miei piedi o sfruttare
i mezzi pubblici, pur con tutti gli inconvenienti che l’utilizzo di questa
forma di mobilitazione in Italia comporta. I piatti continuo a lavarli a mano,
nonostante abbia una lavastoviglie e avvio la lavatrice una volta ogni una-due
settimane, aspettando che il cestello sia ben pieno. Non lascio luci accese
dove queste non servono e mi arrabbio quando vedo sprechi energetici sia in
pubblico che in privato. Non ho il condizionatore e il riscaldamento lo accendo
solo quando è veramente necessario. Evito di andare in certi supermercati e di
comprare marche di articoli di cui non condivido la politica della ditta
produttrice. Cerco di scegliere sempre prodotti alla spina per evitare inutili
imballaggi. Non chiedo mai un sacchetto perché ogni volta mi porto la mia borsa
per la spesa. Riciclo e riutilizzo ogni prodotto.
Da anni non voto perché non credo nella democrazia parlamentare,
ma ogni volta che scelgo un prodotto piuttosto che un altro, ogni volta che
agisco in un modo piuttosto che un altro, voto.
Questa è la mia democrazia.
Infine, avendo visitato più volte Fukushima e Chernobyl, sono
consapevolmente conscio del pericolo che le centrali nucleari rappresentano e,
quindi, sono consapevolmente contro la dipendenza energetica sul nucleare senza
cercare valide alternative (che ad oggi, checché se ne dica, purtroppo, non esistono).
Però, questo referendum del 17 aprile su trivelle sì, trivelle
no, mi trova in parziale disaccordo con i promotori (tra cui la stessa amata e rispettata
Greenpeace). Mi spiace, ma non lo condivido. Non del tutto, per lo meno.
Le coste italiane (e non solo) sono punteggiate da centinaia di
impianti off-shore che da decenni estraggono gas idrocarburi e (in minima parte)
petrolio dal mare. Ripeto: da decenni. Eppure sembra che solo da qualche mese a
questa parte, la popolazione italiana se ne sia accorta. Per decenni milioni di
italiani (e non solo) hanno frequentato le coste della penisola senza alzare un
dito contro le trivellazioni, continuando imperterriti, felici e ignari a bagnarsi nei
mari italici. Ai bar di Rimini, delle Tremiti, di Cefalù si parlava di tutto,
ma non certo di trivelle. La democrazia (potere al popolo, sigh!) non era arrivata
sugli sdrai delle spiagge. Poi, come spesso accade (potere dei mass-media?) l’inondazione
di informazioni.
O informazione a senso unico, che si avvicina molto alla
disinformazione (esattamente come lo era stato per il nucleare).
E dato che non credo affatto della volontà dell’opinione
pubblica di informarsi (cosa di cui sono ben consci anche i promotori del
referendum), è molto facile abbindolare l’uomo e la donna comune con immagini e
indicazioni che nulla hanno a che fare con ciò per cui si andrà a votare.
In un argomento tecnicamente così delicato è anche estremamente
facile e poco etico (ma alla fine chi se ne frega dell’etica se porta acqua al
mio mulino?) inondare l’opinione pubblica di dati, anche se tecnicamente e
scientificamente non verificati, come accaduto per il nucleare. Tanto, chi
andrà a verificare?
Si parla soprattutto di estrazione petrolifera, quando, invece,
dei 92 pozzi offshore interessati al referendum, solo 5 estraggono petrolio.
Gli altri producono gas idrocarburi (principalmente metano). E delle 4.500.000
tonnellate di petrolio estratte ogni anno in Italia, ben 4 milioni provengono
da 615 impianti situati a terra, non interessati al referendum, ma molto più
inquinanti. Per l'indignazione popolare verso queste trivellazioni, aspettiamo una nuova ondata di "informazioni". Per ora va bene così.
Il Decreto Legislativo 128/2010, entrato in vigore dopo l’incidente di Macondo, nel Golfo del Messico, proibisce già oggi la costruzione di piattaforme off-shore entro le 12 miglia nautiche. Il referendum, quindi, non deciderà se in futuro sarà possibile o meno costruire nuovi impianti. Il voto, invece, deciderà se, alla scadenza delle concessioni, le piattaforme off-shore dovranno cessare di estrarre gas (o petrolio), oppure dovranno essere smantellate per spostarsi qualche miglio più in là. Un po’ come non volere il nucleare, ma avere le centrali appena al di là del confine e comprare energia prodotta dalla fissione dell’atomo.
Il Decreto Legislativo 128/2010, entrato in vigore dopo l’incidente di Macondo, nel Golfo del Messico, proibisce già oggi la costruzione di piattaforme off-shore entro le 12 miglia nautiche. Il referendum, quindi, non deciderà se in futuro sarà possibile o meno costruire nuovi impianti. Il voto, invece, deciderà se, alla scadenza delle concessioni, le piattaforme off-shore dovranno cessare di estrarre gas (o petrolio), oppure dovranno essere smantellate per spostarsi qualche miglio più in là. Un po’ come non volere il nucleare, ma avere le centrali appena al di là del confine e comprare energia prodotta dalla fissione dell’atomo.
Naturalmente, una volta vietata la concessione, le compagnie
saranno libere di andare ad estrarre gas o petrolio in altri Paesi (molto
probabilmente si sposteranno sulle coste croate). Nel frattempo noi, visto che
difficilmente accetteremo di diminuire il nostro livello di benessere,
continueremo a sprecare energia importando le stesse fonti energetiche da
migliaia di chilometri di distanza. Con un aumento dei costi energetici di
trasporto e con la dilatazione dei rischi ambientali legati al maggior numero
di petroliere che dovranno giungere ai nostri porti. Bella mossa!
Se vogliamo veramente proteggere l’ambiente, bisogna agire a
livello internazionale, e non provinciale come siamo soliti fare noi italioti.
Per questo ho aderito a Greenpeace, visto che le loro campagne sono generalmente
rivolte non solo a livello locale, ma globale. Purtroppo non questa delle
trivelle.
Tanto c’è sempre una manifestazione contro l’aumento della CO2 a
portata di mano per permetterci di lavare la nostra coscienza. E poco importa
se ci andremo con i nostri SUV o con le nostre macchine inquinanti, perché
comprare un’auto a metano costa, camminare o pedalare è faticoso e utilizzare i
mezzi pubblici è laborioso. E inveiremo contro quei sindaci che istituiranno le
zone pedonali in centro città, perché camminare è bello, sì, ma che lo facciano
gli altri e lascino liberi i parcheggi per la nostra auto.
Alla fine, siamo sinceri: la nostra politica ambientalista si
limita allo slogan che sono sempre “gli altri” che devono cambiare.
Copyright
©Piergiorgio Pescali
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