“Aspirando
sinceramente ad una pace internazionale fondata sulla giustizia e
sull'ordine, il popolo giapponese rinunzia per sempre alla guerra
quale diritto sovrano della nazione ed alla minaccia o all'uso della
forza quale mezzo per risolvere le controversie internazionali. Per
conseguire l'obiettivo proclamato nel comma precedente, non saranno
mantenute forze di terra, di mare e di aria e neppure altri
potenziali bellici. Il diritto di belligeranza dello stato non sarà
riconosciuto”.
Questo
è l'articolo 9 della costituzione giapponese, considerato da molti
sudditi dell'impero come la pietra fondamentale dell'etica nazionale
formatasi dalle macerie della Seconda Guerra Mondiale.
Questo
stesso articolo 9 rischia di non avere più la stessa valenza morale
dopo che il governo liberaldemocratico di Shinzo Abe ha iniziato il
processo di riforma costituzionale già da tempo annunciato.
E
per evitare ogni fraintendimento sulle reali intenzioni del discusso
premier spianando la strada a successive revisioni in programma, la
prima modifica riguarderà l'articolo ritenuto più intoccabile di
tutti. La mossa è chiara: una volta tolta la barricata principale,
tutto sarà fattibile e passibile di cambiamento senza grandi
obiezioni. Il trambusto politico e sociale creato dalla decisione di
Shinzo Abe è, comprensibilmente, elevato.
Voluto
dagli Stati Uniti al termine della Seconda Guerra Mondiale per
evitare un rigurgito nazionalista e militare dell'impero nipponico e
legare indissolubilmente Tokyo alla linea politica di Washington,
l'articolo ha due funzioni principali. La prima è impedire al
Giappone di dotarsi di forze armate offensive, in grado, cioè, di
intervenire in contesti che esulino dalla difesa nazionale. La
seconda, considerata più limitante e, in certo qual modo,
rassicurante per le nazioni che nel passato hanno subito la
colonizzazione giapponese, obbliga l'impero a non inviare forze
militari al di fuori dei propri confini territoriali.
In
realtà il potenziale bellico di Tokyo è già tra i più potenti al
mondo, se non per quantità, sicuramente per qualità. Le Forze di
Autodifesa sono tecnicamente, in tutto e per tutto, vere e proprie
forze armate, capaci di colpire qualsiasi nazione limitrofa oltre i
confini marittimi giapponesi. Legalmente, però, sono estensione
delle forze nazionali di polizia e questo limita di molto la capacità
di offesa.
Ship JS Hyuga (DDH-181) - US Navy Photo
Il
dibattito sulla necessità di seguire alla lettera il secondo comma
dell'articolo 9 e, quindi, di vietare al Giappone il mantenimento di
queste Forze di Autodifesa, è stato una controversia che ha
impegnato a lungo la sinistra dell'arcipelago sin dagli anni
Cinquanta. Da una parte Partito Comunista e Partito Socialista erano
schierati su posizioni radicali, chiedendo alla nazione di non
mantenere alcun tipo di forza militare, anche solo difensiva.
Dall'altra i partiti di centro e della destra nazionalista
sbandieravano la vicinanza del pericolo comunista rappresentato dalla
Cina, dalla Corea del Nord e dall'URSS (Paese, quest'ultimo con cui
il Giappone è ancora formalmente in guerra), dichiarando la
necessità di possedere un esercito in grado quantomeno di
contrastare un eventuale attacco proveniente da questi Paesi.
Possedere un deterrente militare avrebbe, inoltre, garantito una
difesa anche all'interno dello stato contro un'eventuale vittoria
della Sinistra alle elezioni nazionali evitando di consegnare il
baluardo giapponese ai comunisti sovietici o cinesi.
Attorno
della fazione militarista gravitava una miriade di gruppuscoli
nostalgici dell'impero e movimenti nazionalisti guidati da leader
istrionici e fortemente influenti a livello popolare, come Shintaro
Ishihara, scrittore di successo ed ex governatore di Tokyo o Akio
Morita, presidente della Sony il cui libro, Japan
Can Refuse,
dopo essere stato un bestseller negli anni Novanta, ancora oggi è la
Bibbia di molti giapponesi (non solo di centro e di destra) che
rifiutano la sottomissione psicologica e morale agli Stati Uniti.
Secondo
Ishihara e Morita un Giappone forte militarmente avrebbe la fermezza,
il coraggio e la potenza di sganciarsi dall'orbita ingombrante degli
Stati Uniti, garantendo alla nazione un posto autonomo e di prestigio
nella scena internazionale.
Negli
anni Ottanta il fronte di opposizione alla legalizzazione delle Forze
di Autodifesa si spaccò per il cambio di orientamento del Partito
Socialista, che approvò la legalizzazione delle Forze di Autodifesa
e chiudendo definitivamente un dibattito che si prolungava da
quarant'anni.
Un
altro momento topico che permise di gettare le basi al cambiamento
dell'Articolo 9 è stata la partecipazione giapponese alla missione
di pace delle Nazioni Unite in Cambogia (UNTAC, United Nations
Transitional Authority in Cambodia) permettendo, per la prima volta
dal 1945, ai militari nipponici di andare in missione all'estero. Il
dibattito sull'opportunità o meno di contribuire a questa operazione
internazionale fu lungo e, a tratti, violento. I partiti favorevoli
garantivano la supervisione delle Nazioni Unite sul contingente, che
era peraltro disarmato, mentre i contrari richiamavano alla
possibilità che quella potesse rappresentare un'altra breccia alla
revisione dell'Articolo 9. In pochi anni le missioni dell'ONU a cui
di aggregarono militari giapponesi si moltiplicarono: nel 1993 in
Mozambico, nel 1994 in Zaire, nel 1996 nelle Alture del Golan e poi
ancora a Timor Est, Iraq, Afghanistan, Sud Sudan, Nepal.
Con
tutti questi squarci compiuti già all'indomani della redazione della
costituzione, i baluardi attorno all'Articolo 9 non potevano
resistere a lungo.
L'attacco
finale, che ha portato alla proposta di revisione attuale, è
iniziato nel 2007, sotto la conduzione di Shinzo Abe, il quale ha poi
dovuto abbandonare (temporaneamente) la battaglia per la caduta del
suo governo.
La
preoccupazione maggiore nell'idea di rivisitazione costituzionale è
che il Giappone potrà partecipare alle missioni militari
internazionali quando la sicurezza del Paese lo richieda. Il grosso
problema che ci si pone sempre in questi casi è dove porre i limiti
della sicurezza nazionale. Il dubbio è legittimo se si pensa che,
proprio in questi anni, cresce sempre più la contesa internazionale
degli arcipelaghi nel Mar Cinese, dove un nugolo di nazioni
(Giappone, Taiwan, Cina, Vietnam, Filippine, Malesia, Indonesia,
Brunei) continuano a recriminare scogli e isolotti occupati da altri.
E'
comunque vero che il Giappone non ha mai abbracciato il pacifismo: il
budget della difesa è continuato a crescere sino a diventare,
attualmente il sesto al mondo con 60 miliardi di dollari all'anno. Le
Forze di Autodifesa hanno a disposizione aerei F-15, F-2, F-4
prodotti da case locali come la Mitsubishi, e hanno in ordine
settanta F-35; la marina, simbolo della potenza militare giapponese
durante il periodo colonialista, conta su sommergibili
tecnologicamente avanzati e due portaelicotteri. Nel 2010 l'allora
governo guidato dal Partito Democratico (oppositore del PLD di Abe),
ha approvato l'ampliamento della flotta sommergibilistica giapponese.
F-15 (Japanese Air Self Defence Forces photo)
Da
parte sua Shinzo Abe ha recentemente anche raddoppiato gli aiuti
militari al Vietnam alle Filippine in funzione anticinese.
Se
gli Stati Uniti nel 1947 avevano sponsorizzato l'Articolo 9
all'interno della costituzione giapponese, oggi sono ancora loro ad
intervenire, seppur indirettamente, affinché questo stesso articolo
venga cambiato. Da anni, infatti, il Pentagono sta chiedendo a Tokyo
un maggior coinvolgimento all'interno dello scacchiere dell'Asia
Orientale per contrastare la sempre più ingombrante potenza cinese.
La
Corea del Nord con la sperimentazione di testate nucleari ha dato
all'alleanza nippo-americana la scusa di dotarsi di un sofisticato
sistema di intercettazione missilistica Aegis per abbattere missili
balistici, scatenando l'ira di Pechino che ha sempre contestato il
TMD (Theater Missile Defence) perché (in effetti) utilizzato in
funzione anticinese più che anticoreana.
Cina,
Corea del Nord e del Sud e Taiwan temono il riarmo giapponese perché
nella nazione non vie è mai stato, anche a livello sociale, un
sincero pentimento per ciò che è stato fatto nei primi quattro
decenni del XX secolo. La società giapponese non ha mai mostrato
segni reali di pentimento per il passato ed ultimamente le
manifestazioni nazionalistiche si sono moltiplicate. Durante alcune
di queste si sono viste sventolare bandiere nazionalsocialiste, segno
evidente che il sentimento xenofobo e sciovinista sta aumentando in
modo preoccupante tra la popolazione.
Una
grande responsabilità di questo revanscismo viene addossata al
Partito Liberal Democratico che ha governato quasi ininterrottamente
dal dopoguerra ad oggi. Tutti i suoi primi ministri hanno
regolarmente visitato ogni anno il santuario di Yasukuni omaggiando i
morti nelle battaglie combattute per l'armata imperiale giapponese.
Nulla di male, se non fosse per 1.068 criminali di guerra, di cui 14
di classe A, la cui venerazione genera malcontento nelle diplomazie
dei paesi in cui questi soldati hanno commesso i loro crimini.
La
rivisitazione dell’articolo 9 terrorizza anche per il senso di
legittimazione che viene dato proprio da queste visite ufficiali, a
questi movimenti nostalgici. E da qui a richiedere un riarmo anche
nucleare del Giappone, il passo è breve. Sono già diversi i
politici che hanno espresso opinioni favorevoli in questo senso,
suscitando le comprensibili reazioni di Cina, Corea del Sud, Corea
del Nord e Taiwan, i Paesi che, storicamente, si sentono più
minacciati da un rigurgito nazionalista del Sol Levante.
Copyright ©Piergiorgio Pescali
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