1. Introduzione: i campi di battaglia
Sono trascorsi tre anni, da quando, nel 2010, il
Myanmar ha cominciato ad intraprendere un nuovo corso politico, economico e sociale.
Il cammino si è dimostrato più lineare e rapido di quanto ci si potesse
immaginare, ma, come spesso accade, dopo i primi entusiasmi sono cominciate ad
affacciarsi anche le difficoltà ed i primi ostacoli.
Accanto ai radicati conflitti etnici e alle intolleranze
religiose che nel passato non si erano manifestate solo perché represse dalle autorità
locali che agivano in stretta collaborazione con la polizia ed il tatmadaw (l’esercito del Myanmar), nel
2013 si sono manifestate anche tensioni sociali ed economiche.
I primi decreti liberali voluti dal nuovo governo
civile di Thein Sein con l’aiuto, bisogna dirlo con onestà, degli stessi
militari che siedono al parlamento, si sono dimostrati audaci e rivoluzionari oltre
ogni aspettativa, ma, proprio per questo, hanno già bisogno di essere riveduti
e corretti. I rinnovamenti sociali ed economici introdotti con le riforme,
accolti con favore dalla popolazione birmana e dai governi democratici
occidentali, hanno già reso desuete le leggi che li aveva promossi.
L’inesperienza dei politici, dovuta a decenni di
isolamento internazionale e di rifiuto al confronto interno, ha anchilosato un
sistema legislativo ed esecutivo che oggi fa fatica a tenere il passo con la
richiesta di cambiamenti non solo politici, ma anche tecnologici.
La capacità di adattarsi con elasticità ed
immediatezza alle esigenze di una nazione e di un popolo in fase di repentino
cambiamento, definirà chi potrà essere la nuova classe dirigente birmana. Sarà
questo il campo in cui i principali candidati alle elezioni presidenziali, in
programma nel 2015, si confronteranno.
2. Gli scontri etnico-religiosi tra musulmani e
buddisti
Tutto il corso del 2013 è stato caratterizzato da
una recrudescenza degli scontri a sfondo religioso ed etnico, monopolizzando quasi
totalmente l’attenzione della comunità internazionale. Nel primo caso, i conflitti
tra musulmani e buddisti, iniziati nel maggio del 2012 nello stato Rakhine [AM
2012, pp. 269-261], si sono estesi, a partire dai primi mesi del 2013, anche in
altre regioni del paese. Nel secondo caso, invece, i kachin e il governo
centrale hanno continuato ad alternare i negoziati con il clamore delle armi.
In entrambe le situazioni le istituzioni
governative, il presidente Thein Sein e la stessa Aung San Suu Kyi sono stati
duramente criticati dalle organizzazioni internazionali che si occupano del
rispetto dei diritti umani per la pesante responsabilità avuta nelle cruenti
vicende o, nel caso della leader dell’opposizione, per non aver criticato con
sufficiente forza, le violenze settarie [W/TW 29 ottobre 2012 «Aung San Suu Kyi
loses her gloss for failing to denounce killings»; HRW aprile 2013, p. 16]. In
un’intervista rilasciata a chi scrive durante il suo viaggio in Italia nell’ottobre
2013, Aung San Suu Kyi ha cercato di spiegare il suo atteggiamento: «Condanno ogni
tipo di violenza, ma se vuole che condanni solo la violenza dei buddisti contro
i musulmani, allora non lo farò. Condannare una sola comunità serve solo ad
istigare altra violenza e se le mie parole fossero fraintese chi ne farebbe le
spese sarebbe il popolo, non io che le ho pronunciate» [Pescali 2013].
Va comunque detto che le brutalità nel Rakhine e
quelle nel Kachin, pur avendo punti in comune, sono espressioni di due
malesseri differenti che vanno analizzati in modo opportunamente dettagliato
visto che, proprio sulle questioni portate dai conflitti, si giocherà il futuro
della convivenza civile in Myanmar.
Per quanto riguarda gli scontri tra musulmani e
buddisti, l’espandersi dei pogrom ai
danni delle comunità islamiche ha indotto diversi politici a prendere posizioni
molte volte contraddittorie. In particolare, Thein Sein ha incolpato
«opportunisti politici ed estremisti religiosi» [W/TI 28 marzo 2013, «“Political
Opportunists” and “Religious Extremists” Behind Riots: Thein Sein»] di aver
fomentato e manovrato le proteste, mentre il generale Hla Min ha ipotizzato che
gli scontri siano stati voluti e diretti
da gruppi contrari alle riforme in atto. Se, in entrambe le accuse, si sono
intravisti elementi che possono aver giustificato tali dichiarazioni (ad
esempio la nostalgia di uno status quo che, sia pure tramite la dittatura, garantiva
una sorta di pace sociale), appare improbabile che la destabilizzazione del
paese possa favorire una precisa corrente politica.
Da parte dell’opposizione, ancora una volta Aung San
Suu Kyi ha rimandato la completa responsabilità al governo: «Per decenni i
regimi militari birmani non hanno mai controllato il confine con il Bangladesh,
lasciando che questo diventasse estremamente poroso e permettendo a migliaia di
persone di entrare illegalmente in Birmania. Ora, io chiedo che si rispetti la
legge di cittadinanza: chi ha la facoltà di diventare cittadino birmano deve
far valere questo diritto. Il governo, da parte sua, deve porre fine a questa
immigrazione illegale» [Pescali 2013].
L’United Nations High Commissioner for Refugees (UNHCR) stima che vi siano più di
808.000 rohingya tra Myanmar e Bangladesh privi di cittadinanza e, quindi, dei
diritti che questa comporta [UNHCR 2013; UNHRC 6 marzo 2013, p. 13]. Secondo la Legge di Cittadinanza del
1982, il Myanmar ne concede il titolo ai residenti nel paese che possano
dimostrare di aver avuto parenti stabilitisi in Birmania già prima
dell’indipendenza, raggiunta nel 1948 [W/RW «Burma Citizenship Law»]. In questo
caso, però, la domanda deve essere presentata entro la terza generazione,
documentando la comprovata residenza della propria famiglia. Cosa,
naturalmente, pressoché impossibile da dimostrare, visto che la maggior parte
dei rohingya è emigrata durante il periodo coloniale, quando sia Birmania che
India erano sotto il dominio britannico e le documentazioni relative al
trasferimento da un luogo all’altro erano irrilevanti e, quindi, spesso non effettuate
[W/HRW 22 aprile 2013, «Burma: End “Ethnic Cleansing” of Rohingya Muslims»].
Lo stesso termine rohingya è stato oggetto di aspra
discussione: secondo il governo, infatti, non esisterebbe alcuna etnia che
possa definirsi tale (ed in effetti tra le 135 etnie riconosciute nel Myanmar
non esiste nazione che si rifaccia a questo gruppo etnico musulmano). Le fonti
ufficiali governative hanno sempre identificato le comunità islamiche del Rakhine
come bengalesi giunti clandestinamente dallo stato indiano del Bengala Orientale
o dal Bangladesh e che, come tali, sarebbero presenti in Myanmar in modo del
tutto illegale.
Nonostante queste difficoltà, secondo un sondaggio
compiuto nel maggio 2012, il 70% dei rohingya potrebbe avere diritto alla
cittadinanza birmana, rivoluzionando la demografia della regione e minacciando
la supremazia economica, sociale e politica dei rakhine buddisti. Il timore che
il processo di democratizzazione del regime possa favorire appunto tale esito, incoraggiando
l’integrazione, ha contribuito ad alimentare gli attriti tra i due popoli.
I rapporti delle commissioni di inchiesta
internazionali sono giunti a conclusioni diametralmente opposte rispetto a
quelle della commissione stabilita da Thein Sein per investigare sulla
situazione dello stato Rakhine. Di quest’ultima, presieduta dal dr. Myo Myint,
facevano parte anche membri non simpatetici con il governo, come il comico
satirico Zarganar e il leader di «Generazione 88», Ko Ko Gyi, ma nessun rohingya
[RUM 8 luglio 2013].
Il rapporto finale della Commissione Myo Myint, dopo
sette mesi di consulti e d’interviste sul campo, individuava nel «rapido
incremento della popolazione musulmana» uno dei principali fattori che avrebbe
indotto la comunità rakhine di fede buddista a reagire con violenza contro i bengalesi
(la parola rohingya non è mai stata menzionata). La stessa commissione
consigliava di attuare una politica di controllo delle nascite per la comunità
islamica, tenendo separati, nel frattempo, fedeli musulmani e buddisti per
evitare che venissero in contatto tra loro.
La relazione è stata recepita positivamente dal
governo che, il 25 maggio, ha approvato la legge che vietava ai bengalesi di
avere più di due figli [W/AJ 25 maggio 2013 «Two child limit imposed on
Myanmar’s Rohingya»; W/R 11 giugno 2013,
«Myanmar minister backs two-child policy for Rohingya minority»]. Inoltre, nel
solo 2013, circa 75.000 rohingya sono stati forzatamente allontanati dai loro
villaggi e dislocati in campi e villaggi da cui, a differenza di quanto accade
per i rakhine, è richiesto un permesso speciale per potersi allontanare o per entrare
[UNHCR 2013].
Di diverso avviso sulla questione rakhine/rohingya
sono, invece, i resoconti delle organizzazioni internazionali che hanno
visitato lo stato Rakhine. Tutte le organizzazioni concordano nell’affermare
che i rohingya sono le principali vittime di una politica inaugurata
all’indomani dell’indipendenza birmana (quindi ben prima del colpo di stato
militare del 1962) e perpetuata ancora nel 2013 dal governo di Nay Pyi Taw [W/USH
24 settembre 2013, «US Holocaust Memorial Museum Statement on the Situation of
the Rohingya in Burma»; W/ARNO 10 febbraio 2013, «Rohingya History»]. Le
commissioni a cui è stato garantito l’accesso alle prigioni in cui sono
detenuti gli attivisti musulmani hanno parlato di condizioni inumane e di
torture inflitte ai carcerati [UNHRC 6 marzo 2013, p. 13]. Nei campi profughi
le condizioni non sono migliori: Médecins San Frontières (MSF) ha parlato di
emergenza umanitaria e di migliaia di
persone prive di accesso alle più elementari cure mediche, mentre Human Rights
Watch (HRW) ha denunciato la stretta collaborazione tra i monaci buddisti, il
partito politico rakhine e le forze del regime birmano nel fomentare le
violenze contro i rohingya [W/MSF 6 febbraio 2013, «The Ongoing Humanitarian
Emergency in Myanmar’s Rakhine State»; HRW aprile 2013, «All You Can Do is Pray,
Crimes Against Humanity and Ethnic Cleansing of Rohingya Muslims in Burma’s
Arakan State», pp. 42-43; UNHRC 6 marzo 2013, pp. 11-13].
Questa situazione ha creato un senso di insicurezza
tra le comunità musulmane anche al di fuori dello stato Rakhine.
Per evitare di alimentare polemiche con i buddisti,
i musulmani del Myanmar hanno deciso di cancellare, così come era già stato
fatto nel 2012, le celebrazioni dell’Eid
al-Adha (la «festa del sacrificio»), durante le quali è consuetudine
macellare gli animali secondo l’usanza musulmana dello sgozzamento. La
cancellazione ufficiale della celebrazione, apprezzata da alcuni esponenti
religiosi buddisti, non è però stata osservata dalla maggioranza dei fedeli,
con il risultato che vi sono stati scontri intercomunitari, rapidamente estesisi
a gran parte delle province centrali e meridionali del paese.
Tutti gli episodi hanno seguito lo stesso copione,
definito da Vijay Nambiar, consigliere speciale del segretario generale delle
Nazioni Unite in Myanmar, di «brutale efficienza»: un incidente, che in
condizioni normali sarebbe passato inosservato e che coinvolgeva componenti
delle due comunità innescava una violenta protesta di gruppi buddisti i quali,
per vendicare il presunto affronto, attaccavano ed incendiavano negozi e case
appartenenti a famiglie musulmane arrivando perfino, in alcuni casi, a
saccheggiare le moschee [UN 2013a]. In tutti i casi, la polizia, non è ancora chiaro
se per complicità o per evitare ulteriori provocazioni, è rimasta impassibile.
L’attivismo religioso-politico dei gruppi buddisti è
sfociato nel Movimento 969, un’organizzazione fondata dal monaco U Wirathu
all’inizio del 2013 e nelle cui file milita anche Wimala, un monaco molto
popolare tra i fedeli del monastero Masoeyein di Mandalay [W/R 27 giugno 2013,
«Special Report: Myanmar gives official blessing to anti-Muslim monks»]. Il
numero 969, prendendo il nome dalla numerologia astronomica associata ad alcuni
attributi del Buddha storico ed al suo dharma,
si contrapporrebbe al numero 786, popolarmente associato ai musulmani perché da
questi utilizzato per individuare le insegne dei negozi halal [W/MM 29 marzo 2013, «Interview with U Wirathu, the leader of
969 Movement»; W/DFB 15 giugno 2013, «Islamic Leaders Officially Explain
Meaning of “786”»].
Nelle sue focose prediche, U Wirathu, oltre ad
incitare i fedeli a boicottare le attività commerciali condotte dai musulmani,
ha più volte proposto alle autorità birmane un disegno di legge per vietare i
matrimoni misti, paventando lo spauracchio di un complotto jihadista per
conquistare il potere nel Myanmar e trasformare la nazione in un avamposto
islamico per la successiva avanzata nell’intera regione del Sud-est asiatico.
L’estremismo del Movimento 969 ha portato il sangha («comunità») buddista birmano a
dividersi nel suo interno: diversi monaci, avversi alla politica intollerante
di U Wirathu, hanno, deciso di fondare un coordinamento che la contrastasse, creando
un nuovo movimento: il Pray for Myanmar
[W/CSM 20 maggio 2013, «In Myanmar, a movement for Muslim and Buddhist
tolerance»].
3. Guerra e pace nello stato Kachin
Mentre il Pray
for Myanmar ha cercato faticosamente di riportare una certa tranquillità
anche nel cuore dello stato birmano, per quanto riguarda i conflitti etnici che
da oltre mezzo secolo hanno sconvolto gli stati periferici del Myanmar, il 2013
è stato foriero di importanti avvenimenti. Il governo di Thein Sein è riuscito,
se non altro, a raggiungere apprezzabili risultati, in particolare sul fronte kachin.
Dopo una serie di sanguinose battaglie che hanno portato le truppe del tatmadaw alla periferia di Laiza, dove
ha sede il quartier generale della Kachin
Independence Organization (KIO), con la conseguente fuga di migliaia di
abitanti dalla città, la guerra si è fatta strada fin negli uffici del
segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon. Lo stesso segretario, il
2 gennaio 2013 ha
chiesto al regime birmano di «desistere da ogni azione» che avrebbe messo in pericolo
la vita di civili [W/VOA, 2 gennaio 2013, «UN Warns Burma on Airstrikes in
Kachin»]. Alle preoccupazioni espresse dalle Nazioni Unite, si sono aggiunte
quelle degli Stati Uniti, del Regno Unito e dell’Unione Europea [USDP 2013; W/UK
14 gennaio 2013, «UK concerned about escalation in hostilities in Kachin State,
Burma»; EU 15 gennaio 2013]. La
Cina , direttamente coinvolta nel conflitto sia per la
condivisione del confine con lo stato Kachin, sia perché alcuni colpi d’artiglieria
erano caduti sul suo territorio, ha chiesto al governo birmano e al KIO di prendere
le misure necessarie per evitare l’intensificarsi della guerra [W/TI 22
febbraio 2013, «China’s Intervention in the Burma-Kachin Peace Talks»].
I negoziati, già difficili e complicati, sono stati
resi più faticosi dalla riluttanza di Pechino a coinvolgere anche gli Stati
Uniti e le organizzazioni di assistenza umanitarie. Persino la presenza di Harn
Yawnghwe, direttore dell’Euro-Burma
Office di Bruxelles, che la
Cina considerava alla stregua di un’organizzazione non
governativa, è stata in forse fino all’ultimo. Solo l’insistenza del governo
birmano è riuscita a convincere la delegazione di Pechino a togliere il veto
alla partecipazione di Harn.
La riluttanza cinese a condividere il tavolo delle
discussioni con altri membri della comunità internazionale, specie se legati ai
governi occidentali, è dovuta principalmente a due fattori. Il primo è relativo
alla volontà di non entrare nel merito delle lotte etniche per non dare adito a
velleità indipendentiste nel vicino Yunnan. Il secondo riguarda gli enormi
interessi economici che la Cina
ha nella regione.
I kachin, a differenza dei wa e dei kokang, non
hanno affinità etniche con gli han cinesi. La maggior parte di essi, inoltre,
professa la religione cristiana e questo, sommato agli stretti rapporti che il
KIO ha tessuto con la
Gran Bretagna e gli Stati Uniti, li ha resi molto ambigui
agli occhi di Pechino.
Al tempo stesso, però, l’economia cinese ha
necessità di sfruttare le enormi ricchezze che offre questo stato birmano.
L’annullamento della costruzione della diga di Myitsone [AM 2010, pp. 190-191],
per esempio, ha creato un pericoloso buco energetico nell’industria dello
Yunnan e delle limitrofe regioni meridionali. Il deficit è stato ripianato con
l’entrata in funzione del gasdotto Kyaukpyu-Kunming, inaugurato nell’ottobre
2013, che ha cominciato a rifornire la
Cina di 12 milioni di metri cubi di gas naturale ogni anno [W/MBT
28 ottobre 2013, «China-Myanmar Gas Pipeline Becomes Fully Operational»].
Risulta, quindi, chiaro che la dirigenza di Pechino ha tutto l’interesse di trasformare
il Kachin in un’area stabile, allontanando i venti di guerra che, sino a poco
tempo fa, impedivano il sicuro passaggio di fonti energetiche di primaria
importanza.
Dopo numerosi incontri preliminari tenutisi a Chiang
Mai, in Tailandia, e a Ruili, in Cina, l’accordo finale è stato raggiunto il 30
maggio a Myitkyina [NLM 31 maggio 2013, «Union Peace-Making Work Committee, KIO
sign agreement after three-day peace talks», pp. 9, 16; UN 2013b].
Le due controparti in causa, il KIO e il governo di
Nay Pyi Taw, con l’accordo del 30 maggio, hanno stabilito la continuazione del
dialogo; il graduale disimpegno militare nella regione sino alla completa cessazione
delle ostilità; il monitoraggio della situazione con gruppi di controllo misti;
il rimpatrio e l’insediamento dei profughi attualmente all’interno e
all’esterno dei confini dello stato Kachin; il riposizionamento delle truppe
del Kachin Independence Army (KIA) e
del tatmadaw; la presenza e la
formazione di una squadra del KIO a Myitkyina che collabori con le autorità
governative per riportare la pace; la presenza di osservatori internazionali
nei successivi colloqui di verifica [NLM 31 maggio 2013, «Union Peace-Making
Work Committee, KIO sign agreement after three-day peace talks», p. 9].
Le tre principali richieste del KIO, vale a dire l’indipendenza
delle forze militari kachin dal tatmadaw;
il continuo monitoraggio della situazione e il dialogo politico sono state accolte
dalla delegazione birmana.
Gli incontri tra i kachin e il governo birmano sono
continuati per tutto il resto dell’anno, giungendo a ratificare un nuovo
trattato all’inizio di ottobre. É importante notare, infine, che nell’accordo
non è stata inserita in alcuna parte la dicitura di «cessate il fuoco», dicitura
fortemente osteggiata dal KIO, perché già presente nel testo dell’accordo
siglato nel 1994 e causa di diverse interpretazioni che avevano portato al
fallimento dei negoziati [W/TI 10 ottobre 2013, «KIO Signs New Peace Deal, But
Still No Ceasefire»].
Le intese raggiunte a maggio e ribadite con il nuovo
trattato di ottobre non hanno, però, riportato la pace nello stato. Il KIO ha
più volte denunciato il disinteresse dei politici bamar (il gruppo etnico
egemone nel Myanmar) nei confronti della situazione nello stato Kachin.
Particolarmente risentiti sono stati i rimbrotti verso Aung San Suu Kyi,
accusata, allo stesso modo di quanto avvenuto per i rohingya, di non difendere
i diritti kachin. [W/KNG 29 novembre
2013, «Suu Kyi claims no need to speak out on Kachin conflict»]. Numerosi
scontri, seppure di minore intensità rispetto a quelli monitorati negli anni
passati, si sono registrati in tutto il territorio dei kachin durante i mesi
successivi all’accordo. Lo stesso Thein Sein è stato costretto ad intervenire
più volte in proposito, chiedendo ai comandanti delle forze armate birmane di evitare
ingaggi con le truppe del KIA. La scarsa attenzione mostrata dai comandanti
locali alle parole del presidente ha sollevato parecchi dubbi sull’effettivo
controllo che il governo centrale ha sui vertici militari.
4. I militari: tra vecchio e nuovo corso
La galassia del tatmadaw,
abituata a comandare per sessant’anni senza opposizione, è sempre più divisa
tra la vecchia guardia e la nuova generazione di ufficiali, più propensa ad
accettare un ruolo di subordine anche nella vita politica della nazione.
L’articolo della nuova costituzione del 2008 [CRUM
2008, Cap.IV § 109 (b)] che garantisce ai militari il 25% dei seggi nel
parlamento può essere considerato, ovviamente, come un impedimento al
raggiungimento della democrazia nel paese. In linea di principio la
considerazione è esatta, ma occorre notare che senza un consenso esplicito dei
rappresentanti delle forze armate, nessuna riforma avrebbe potuto essere varata
dal nuovo governo. Inoltre, il gruppo militare si è dimostrato
sorprendentemente libero da strettoie ideologiche durante le votazioni
parlamentari. Solo nelle questioni considerate importanti per la sicurezza e per
l’unità nazionale si sono riscontrate votazioni unanimi tra i deputati
appartenenti al tatmadaw. Per tutte
le altre decisioni in cui i militari sono stati chiamati ad esprimere il
proprio voto, si è osservata una libertà di scelta e di opinione.
La stessa Aung San Suu Kyi, sebbene per principio
sia contraria all’articolo costituzionale in questione, intervistata
sull’argomento, ha dichiarato: «La percentuale dei seggi riservati ai militari
non penso rappresenti un problema. Ho sempre detto che i militari devono essere
inseriti nel contesto esecutivo e legislativo del paese. Nei limiti di una
democrazia, naturalmente» [Pescali 2013].
Il timore dei generali, in particolare di coloro che
sono stati pesantemente coinvolti nelle precedenti giunte che hanno governato
la nazione fino al 2010, è che la ventata di democrazia degli ultimi anni possa
trasformarsi in un’ondata di protesta dirompente e fatale, tale da intaccare la
loro dignità e le fortune economiche familiari accumulate. Per questi gerarchi
del vecchio potere, i continui proclami di Aung San Suu Kyi, «non vogliamo
vendetta, ma solo giustizia, verità e democrazia» [Pescali 2013], non sarebbero
del tutto rassicuranti, poiché non rispecchiano il clima popolare che, per
alcuni versi, è apparso tutt’altro che sereno. L’ombra dei militari è rimasta, dunque,
ossessivamente presente nella vita politica ed economica del paese.
Del resto il tatmadaw
è l’unica organizzazione presente in Myanmar capace di mantenere unito il
mosaico etnico. La stessa Aung San Suu Kyi, in previsione della campagna
elettorale ed in cerca di appoggi anche tra le forze armate, ha detto di essere
«sempre stata convinta che i militari devono lavorare a stretto contatto con la
legislatura e l’esecutivo. Io ho sempre avuto un affetto particolare per i
militari e a chi si scandalizza quando mi sente dire questo, rispondo che non
ha capito nulla del mio pensiero» [Pescali 2013].
È anche per la paura di una disgregazione nazionale
che le previsioni di spesa per il 2013-2014 hanno evitato drastici tagli alla
Difesa. Per il biennio in questione, infatti, il ministero ha a disposizione
2,5 miliardi di dollari, pari al 17,2% del bilancio totale nazionale (4,2% del
PIL) [W/WB ottobre 2013, «Myanmar Economic Monitor», p.6].
La previsione di spesa militare, giustificata dal
fatto che il paese doveva far fronte a nuove minacce interne, come i conflitti
negli stati Rakhine, Kachin, Shan e nelle regioni delle minoranze etniche, contrastavano
pesantemente con le magre risorse destinate dal bilancio alla sanità (3,8% del
bilancio; 0,9% del PIL) e alla pubblica istruzione (7,5% del bilancio; 1,8% del
PIL) [W/WB Ottobre 2013, «Myanmar Economic Monitor», p.6].
Un’interessante nota è venuta dal fatto che,
conformemente al nuovo indirizzo economico e alla tendenza del governo birmano
di sganciarsi dall’orbita di Pechino, nel 2012 il principale fornitore di
armamenti per il tatmadaw è stata la Russia , scalzando non solo
il predominio cinese nel settore, ma anche la concorrenza indiana [W/SP 26
marzo 2013, «Myanmar: China Not So Welcome Anymore»; W/RN 21 gennaio 2013,
«Russia Sells Record $15 Bln of Arms in 2012»].
5. La politica e la società
Come anticipato all’inizio del capitolo, il governo
Thein Sein ha continuato a varare nuove riforme sia in campo sociale che
economico.
Il famigerato Ordine 2/88, che vietava ogni riunione
pubblica con più di quattro persone è stato abrogato così come, negli anni
precedenti, erano state abolite le norme restrittive della censura di stampa,
della libertà di espressione e di quella di movimento [NLM 29 gennaio 2013, «Republic
of Myanmar, President Office, Order n. 3/2013, 28th January 2013,
Abolishment of Order No. 2/88», p. 8].
Tutto questo ha permesso ad una grossa parte della popolazione,
in particolare ai contadini privati negli anni della dittatura militare dei
loro terreni, di unirsi in associazione per richiedere la restituzione delle
loro proprietà. Nel corso del 2013, il comitato parlamentare istituito per
indagare sulle confische illegali ha ricevuto circa 4.000 domande di
risarcimento. Così come è avvenuto per i rohingya, indagare a ritroso sulla
consistenza delle vertenze sarà, in molti casi, impossibile.
La bocciatura dello schema protezionista proposto
dal parlamento all’inizio del 2013, per far fronte ad eventuali ribassi troppo
accentuati del riso, ha esacerbato ulteriormente gli animi. Nonostante che gli
economisti abbiano accolto con favore l’esito negativo della votazione che
proponeva al governo di intervenire comprando il cereale dai contadini ad un
prezzo superiore a quello proposto dal mercato, il pericolo di accaparramenti
artificiali da parte di speculatori, così come era già accaduto nel passato, era
reale e si verificava ancora regolarmente nelle campagne birmane.
Di conseguenza, la prospettiva che ci sarebbero
stati ulteriori scontenti, da veicolare in qualche modo affinché non sfociassero in dimostrazioni
violente, era concreta.
Il caso dei contadini sfrattati dai loro villaggi
nei pressi della miniera di Monywa, per esempio, è emblematico. Le famiglie
della regione, a cui erano stati espropriati i terreni per permettere
l’ampliamento della locale miniera di rame, si sono coalizzate occupando
l’intero sito [AM 2012, pp. 261-262]. La commissione parlamentare di
investigazione sul caso, presieduta da Aung San Suu Kyi, è stata costretta a sfoggiare
tutta la sua abilità dialettica per stilare il contorto rapporto finale
consegnato a marzo. Il gruppo parlamentare, se da una parte ha verificato che
il giacimento non avrebbe creato nuovi posti di lavoro e, anzi, avrebbe causato
un danno ambientale rilevante, dall’altra ha suggerito che l’espansione
procedesse al fine di non creare tensioni con la Cina , cioè il principale
investitore,. Infine, la richiesta fatta ai contadini di accettare il trasferimento
in cambio di una ricompensa in denaro (la proposta di risarcimento avanzata da
Aung San Suu Kyi era di una somma di kyat
pari 1.730 dollari per ogni acro) si è scontrata con il fermo rifiuto delle
famiglie, che hanno continuato la protesta [W/C, 19 aprile 2013, «Leptadaung
Investigation Commission Issues Final Report»; W/TG 13 marzo 2013, «Aung San
Suu Kyi faces protesters at copper mine»].
Contestazioni simili si sono ripetute in più parti
della nazione, prendendo come spunto anche manifestazioni che esulavano dal
contesto economico. Durante i XXVII Giochi del Sud-est asiatico, per esempio,
ospitati dal Myanmar nel dicembre 2013, i tifosi della nazionale di calcio si
sono più volte scontrati con reparti di polizia, evidenziando un crescente malessere che
serpeggia tra la popolazione [W/CNA 17 dicembre 2013, «SEA Games: Myanmar fans
riot after footballers knocked out»].
In effetti il governo è più preoccupato di attirare
nuovi investimenti che di soddisfare le richieste dei propri cittadini.
Le grandi sovvenzioni elargite dagli istituti di
credito internazionali sono state quasi tutte dirette ai grandi conglomerati
industriali La Banca
Mondiale e l’Asian Development Bank hanno fatto la parte del
leone, elargendo un mutuo di quasi un miliardo di dollari per progetti socio
economici e per il miglioramento della gestione pubblica [W/WB 2013a e 2013b].
La fine delle sanzioni economiche, inoltre, ha
portato numerosi uomini d’affari a visitare il Myanmar per cercare nuove
opportunità d’investimento.
Il Giappone, alla ricerca di un rilancio per la sua
stagnante economia è stato il più attivo. Alla fine di maggio, una folta
delegazione di 40 amministratori d’azienda, guidata dal primo ministro Shinzo
Abe, è stata accolta con tutti gli onori dalle principali autorità birmane. I
colloqui sono stati con tutta evidenza positivi, tanto che il governo birmano
ha ottenuto due risultati importanti: il primo è stato la cancellazione del
debito di 1,85 miliardi di dollari che le giunte militari precedenti l’attuale
governo avevano contratto con il governo nipponico. Il secondo è stata la
decisione di Tokyo di investire 500 milioni di dollari per la costruzione di
strade e, con rammarico della Cina, di centrali elettriche [W/B 28 gennaio
2013, «Myanmar Clears ADB, World Bank Overdue Debt With Japan Help»; NLM 28
maggio 2013, «Japan considers continued assistance important for Myanmar’s
reform progress », p.1; NLM 28 maggio 2013, « Japan, Myanmar agree grant aid to Myanmar», p.8; NLM 28 maggio
2013, «Japan announces its assistance for Myanmar’s infrastructural development»,
p.9].
La decrepita e fatiscente rete di telecomunicazioni
per cellulari, invece, sarà rinnovato dalla qatariota Ooredoo e della norvegese
Telenor [W/B 28 gennaio 2013, «Myanmar Clears ADB, World Bank Overdue Debt With
Japan Help»]. La concessione è stata oggetto di un lungo e, in alcuni momenti,
drammatico braccio di ferro tra il presidente Thein Sein, favorevole alla
liberalizzazione della gestione telefonica, e il blocco militare, a cui si
rifacevano le tre società che in precedenza controllavano il mercato (la Myanmar Post
Telecommunication, la
Yatanarpon e la Myanmar Economic Corporation).
Gli investimenti stranieri sono stati messi, però, a
rischio dall’instabilità del paese, acuitasi nel corso del 2013, e dalla
complicata macchina burocratica che, in realtà, negli ultimi due anni è
diventata più agile e più efficiente di quanto fosse in precedenza.
La società Maplecroft, specializzata in analisi di
rischio di investimenti, nel 2013
ha posto il Mynamar al quinto posto come paese a rischio
su una classifica che tiene conto di 197 economie mondiali [W/M 30 ottobre
2013, «Myanmar: Maplecroft indices show advances in political and business
environment, but risks remain»].
Un ulteriore dato negativo, registrato sempre nel
2013, è stato quello relativo alla gestione delle risorse del territorio. Il Revenue Watch Institute, infatti, ha
relegato la nazione asiatica all’ultimo posto [W/RWI 2013, «Myanmar’s
Performance on the Resource Governance Index»]. La pessima reputazione del
governo birmano nel settore è confermata anche dal rapporto dello United Nations Office on Drugs and Crime
(UNODC), che nel suo resoconto ha evidenziato come, nel corso di un decennio
(dal 2002 al 2012) la superficie di terre destinate alla coltivazione di
papavero d’oppio è cresciuta del 26%. Il 92% dei campi si trova nello stato
Shan, dove sono presenti numerosi gruppi armati nazionalisti, direttamente
finanziati dai signori della droga. Il leggendario Triangolo d’Oro, l’area che
include territori a cavallo fra i confini di Laos, Myanmar e Thailandia, è
tornato ad essere il punto dove si concentrano alcune fra le maggiori piantagioni
di papaver
somniferum, raggiungendo il 18% della produzione totale internazionale,
secondo solo all’Afghanistan [UNODC 2013]. Il tatmadaw, in un tentativo di analisi
troppo azzardato, ha commentato i dati rilasciati dall’UNODC per evidenziare lo
stretto legame esistente tra le aree a forte produzione d’oppio e la mancanza
di uno stretto controllo dell’esercito birmano.
Ciò che dovrebbe preoccupare
maggiormente il governo, a giudizio di chi scrive, è la forte crescita del consumo
interno di stupefacenti, in particolare tra la popolazione più giovane [W/DVB 18
settembre 2012, «Drug production, addiction on the rise in Burma»; W/DVB 3
dicembre 2013, «Burma’s uphill struggle against escalating drug use»].
6. I contendenti per le elezioni presidenziali
tra riforma costituzionale e diritti umani
I problemi discussi nel paragrafo precedente, le cui
soluzioni implicano politiche di medio periodo, saranno affrontati dal successore dell’attuale presidente. Thein
Sein, infatti, ha già fatto sapere che non intende presentarsi alle prossime
elezioni presidenziali del 2015, anche se, più recentemente, il suo portavoce,
Ye Htut, ha ipotizzato un possibile ripensamento [W/RFA 24 ottobre 2013,
«Myanmar’s President Thein Sein Will Not Seeks Another Term: Speaker»; W/TI 29
ottobre 2013, «USDP Appears Divided as Rift Between President and Party
Chairman Widens»].
Da parte sua, Aung San Suu Kyi ha già avanzato la sua
candidatura come esponente della National League for Democracy (NLD).
L’unico ostacolo che si frappone alla sua designazione è la costituzione, il
cui articolo 59 prevede che il presidente non sia sposato con stranieri e non
abbia figli stranieri. Aung San Suu Kyi, in quanto vedova di un britannico, non
rientrerebbe in questa categoria, ma i figli avuti dal matrimonio con Michael
Aris hanno passaporto britannico e questo elemento pregiudica la sua candidatura
[CRUM 2008, Cap.III §§ 59 (b-d-e-f)].
Per perorare le sue ragioni e cercare alleanza tra le
potenze estere che tanto hanno contribuito alla sua causa mentre era agli
arresti domiciliari, Aung San Suu Kyi, per tutto il 2013, ha viaggiato negli
Stati Uniti, in Oceania, in Giappone ed in Europa. Il dichiarato scopo di tali
viaggi era dare visibilità e peso politico alla richiesta di emendare la costituzione
in senso a lei favorevole.
Un gesto sicuramente interessato ed opinabile, come
la stessa Aung San Suu Kyi ha indirettamente ammesso: «Capisco (…) che la mia
insistenza sull’emendamento per la candidatura presidenziale può essere intesa
come una battaglia personale. Ma non sono io che l’ho iniziata: è stata la
precedente giunta militare che ha disegnato una costituzione nazionale
prendendo come misura la necessità di allontanare la mia persona da ogni forma
di governo. Io mi batto non per la mia candidatura, ma perché il popolo abbia
il diritto costituzionale di scegliere liberamente la persona che andrà a
rappresentarlo» [Pescali 2013].
Se, come è molto probabile che sia, vista
la sensibilità delle democrazie occidentali a riguardo, l’articolo che
impedisce la candidatura della leader dell’NLD venisse rimosso, la popolarità
che Aung San Suu Kyi gode tra i bamar, l’etnia alla quale lei stessa appartiene
e che rappresenta il 68% della popolazione del Myanmar, le potrebbe garantire
il seggio presidenziale.
Non è ancora chiaro, invece, chi sarà il candidato del
partito che attualmente detiene la maggioranza nel parlamento, l’Union Solidarity and Development Party (USDP),
anche se voci sempre più insistenti indicano che potrebbe essere Shwe Mann, potente
portavoce sia della Camera Bassa sia della Camera Alta [W/TI 7 giugno 2013,
«House Speaker Shwe Mann Airs Presidential Ambitions»].
Shwe Mann, che durante il regime di Than Shwe
superava in scala gerarchica anche Thein Sein, ha trasformato le legislature da
semplici luoghi di ritrovo in cui si approvavano ciecamente i decreti proposti
dal governo, in vivaci centri di dibattito.
Con la staffetta Thein Sein-Shwe Mann i militari si
assicurerebbero ancora per un quinquennio una certa tranquillità, sufficiente
per completare il loro ritiro dalla scena politica. Non è escluso, però, che i
dissapori che, negli ultimi mesi dell’anno sotto esame stavano allontanando i
due uomini forti del governo birmano, possano creare una spaccatura insanabile,
portando entrambi alla corsa presidenziale.
Nel frattempo la liberazione di prigionieri politici
continua ad essere presentata dal governo come prova del miglioramento dei
diritti umani nel paese: a fronte di 1.141 detenuti per reati d’opinione
liberati dal 2011 all’11 dicembre 2013 [W/AAPPB 2013, «Amnesty of Goverment
Thein Sein»], verrebbero ancora trattenute in carcere tra le 53 e le 162 persone
[Martin 2013, p. 8].
La situazione dei diritti umani, anche se in via di
miglioramento, rimane, comunque, una spina nel fianco per il governo birmano. Reporters Sans Frontières ha continuato
a denunciare la repressione dei media, nonostante che vi sia una decreto che ha
cancellato ogni forma di controllo preventivo. In realtà, in mancanza di una legge
che possa garantire l’incolumità dei giornalisti, questi, per evitare
conseguenze finanziarie o, peggio, fisiche, si autocensurano da soli [RSF 2012,
pp. 17-18].
Il Child
Soldiers International (CSI), invece, ha continuato a segnalare il
reclutamento di minori tra le file del tatmadaw
e degli eserciti etnici che combattono il regime di Nay Pyi Taw [W/CSI dicembre
2013]. Secondo il CSI, tuttavia, alcuni gruppi di guerriglia, in particolare le
coalizioni Karen National Union/Karen
National Liberation Army (KNU/KNLA) e Karenni
National Progressive Party/Karenni Army (KNPP/KA), avrebbero avviato un programma con
le Nazioni Unite per cessare il reclutamento di combattenti minorenni. A questo
proposito, vale la pena ricordare che nel mese di giugno 2013 l’UNICEF ha
avviato un piano di azione simile con il tatmadaw,
che include il «congedo» dei militari bambini [UNICEF 7 luglio 2013].
Saranno tutti questi problemi, sommati a quelli già
elencati, il pesante fardello che Thein Sein trasmetterà al suo successore.
Copyright
©Piergiorgio Pescali
Chiave delle abbreviazioni dei riferimenti bibliografici
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