The Lady è il film di Luc Besson ispirato alla
figura di Aung San Suu Kyi, fondatrice e leader della Lega Nazionale per la
Democrazia e figlia del generale Aung San, eroe nazionale della Birmania.
II titolo
trae origine dal soprannome che il popolo birmano, oppresso da una dittatura
militare durata fino al 2010, aveva affibbiato alla stessa Aung San Suu Kyi
perché il pronunciarne il solo nome avrebbe potuto destare sospetti e portare
finanche all’arresto.
Il
lungometraggio segue il filone iniziato dallo stesso Besson con Giovanna
d’Arco; erroneamente descritti come film biografici, in realtà sia Giovanna
d’Arco che The Lady sarebbero da annoverare come pellicole agiografiche, dove
la realtà dei fatti lascia ampio spazio ad una verità manipolata in nome di una
facile cattura emozionale del pubblico (e quindi guadagni sicuri al
botteghino).
Nella
pellicola di Besson la vita famigliare di Suu Kyi si dipana tra una dilaniante
nostalgia per il marito ed i figli e la responsabilità politica sentita come
eredità genetica lasciata dal padre, ucciso quando lei aveva solo due anni (il
film si apre proprio con questo fatto storico, che sarà cruciale per la storia
della futura nazione birmana).
Sullo sfondo
scorrono le immagini di una Birmania dilaniata dalla repressione militare del
1988 che, sotto gli occhi indifferenti dell’Occidente (occupato ad osservare
l’imminente crollo del blocco sovietico), schiaccia con violenza la rivolta
studentesca e popolare. Lei, Aung San Suu Kyi, da anni vive in Inghilterra dove
ha un marito (Michael Aris) e due figli ancora piccoli, Alexander, nato nel
1972 e con cui oggi ha rotto quasi ogni rapporto, e Kim, nato nel 1977. A
Rangoon arriva non per volontà politica, ma per accudire la madre morente. Nel
film, invece, viene mostrata una donna già pronta al confronto con la giunta,
una donna già impegnata e decisa nell’aiutare il proprio popolo. In realtà
l’impegno e la volontà di partecipare alla vita politica arrivano solo in
seguito: ad Oxford, dove da anni vive insegnando, Suu Kyi non sente il bisogno
di seguire le vicende del proprio paese (nel 1985 aveva scritto un libro dal
titolo eloquente: Let’s visit Burma in cui non accenna in alcun modo alle torture
e alle guerre contro le minoranze che descrive solo in termini esclusivamente
turistici). In nessuna scena traspare l’intemperanza e l’impazienza di Suu Kyi,
due qualità che sono costate care sia a lei sia al popolo birmano quando, nel
2003, la Lady rifiutò di dialogare con il moderato Khin Nyunt aprendo la strada
allo sprezzante generale Than Shwe. Eppure sarebbe bastato interpellare amici
di lunga data del marito di Aung San Suu Kyi, come i professori Peter Carey o
Robert Taylor, per svelare un lato poco conosciuto, ma più umano, della Lady.
I limiti
politici e umani di Aung San Suu Kyi, ignorati nell’opera di Besson, si riscontrano oggi nelle reticenze nel
condannare le violenze perpetrate ai danni dei musulmani o dei Kachin e che
hanno attirato su di lei critiche sia all’interno che all’esterno del Myanmar.
Sviste
grossolane mettono in dubbio anche la conoscenza della recente storia birmana
da parte del regista: quando la Lady arriva, nel 1988, in Birmania, entra
nell’allora capitale passando sotto un arco con la scritta Yangon. In realtà
sarà solo nel 1989 che la giunta cambierà la toponomastica della nazione rispolverando
i toponimi precoloniali sostituendo Birmania con Myanmar e Rangoon con Yangon.
Besson ha
comunque avuto il merito (e, indubbiamente, la fortuna) di riproporre al
pubblico le vicende di una nazione proprio nel momento in cui il cambio di
governo ha avviato un processo di democratizzazione che ancora oggi continua.
Copyright
©Piergiorgio Pescali
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