Copyright ©Piergiorgio Pescali
S-21 - Nella prigione di Pol Pot
INDOCINA - Un libro, una saggio, una guida per chi vuole approfondire
© COPYRIGHT Piergiorgio Pescali - E' vietata la riproduzione anche parziale senza il consenso dell'autore
Myanmar: Sarà Aung San Suu Kyi a risolvere i problemi della nazione? (2000)
Aeroporto di Rangoon, agosto 1988. Una donna sulla
trentina, tende il suo passaporto tempestato di visti al poliziotto che,
sfogliandolo, ne legge il nome: Aung San Suu Kyi. Senza scomporsi, si affretta
a porre il timbro di entrata e saluta la donna che si dirige immediatamente a
casa della madre morente, quella Ma Khin Kyi che il 6 settembre 1942 divenne
moglie di Aung San, il nazionalista che con la sua lotta contribuì a rendere la
Birmania una nazione libera dal giogo coloniale britannico. Aung San venne assassinato
nel 1947, quando sua figlia Suu Kyi aveva appena due anni, ma Khin Kyi continuò
a crescere i figli secondo gli insegnamenti morali e politici del marito. Per
33 anni, Aung San Suu Kyi sembra interessarsi più allo studio e alla sua
famiglia che alla politica. Dopo essere stata diversi anni in India al seguito
della madre ambasciatrice ed aver conseguito una laurea in filosofia e economia
a Oxford, nel 1972 sposa Michael Arris, con cui rimase legata fino alla sua
morte, avvenuta nel 1999 e dal quale ha avuto due figli. E’ l’imminente morte
della madre che offre, forse inconsapevolmente, a Aung San Suu Kyi l’occasione
di continuare l’opera del padre di costruire una nazione giusta e democratica.
Pochi mesi dopo il suo arrivo in Birmania, lo SLORC (Consiglio di Stato per il
Ripristino della Legge e dell’Ordine) eredita il potere grazie ad un fittizio
colpo di stato che spodesta il generale Ne Win, oramai inviso alla popolazione.
In realtà, dietro all’acronimo che rappresentava il nuovo governo, c’è ancora
il “grande vecchio” che manovra i fili. Aung San Suu Kyi, come tanti suoi
connazionali, lo capisce subito, ma è la sola a denunciarlo pubblicamente
durante una manifestazione studentesca il 26 agosto 1988. E’ l’inizio di quella
che chiama «la seconda guerra
d’indipendenza», una frase che indica a tutti i birmani che lei, la figlia
dell’eroe nazione Aung San, intende raccoglierne l’eredità politica. Ma Suu Kyi
non si ferma qui: scatenando l’ira dei militari dichiara che la promessa del
governo di trasferire il potere ai civili, rimarrà tale; una mera promessa. I
generali accusano il colpo e, incapaci di trovare una soluzione al deteriorarsi
della situazione mettono Aung San Suu Kyi agli arresti domiciliari. E’ un
autogol clamoroso: la fama della donna travalica i confini birmani e la
sconosciuta figlia di Aung San si trasforma in Aung San Suu Kyi, l’eroina dei
diritti umani a cui, l’anno seguente, viene assegnato il Nobel per la Pace. Nel
1996, anno in cui riesco ad intervistarla afferma che la “Lega Nazionale per la Democrazia è pronta a collaborare con i generali
per un governo di coalizione nazionale”. Assorbendo il pragmatismo inglese,
Aung San Suu Kyi dimostra di sapere che non potrebbe governare il Myanmar senza
l’appoggio dell’esercito: “Ho grandi simpatie
per i militari. Li associo alla figura di mio padre e non riesco a provare
alcun risentimento contro di essi.” La Suu Kyi è venerata perché è un
simbolo: rappresenta la continuità storica della nazione, la voglia di
democrazia del popolo, una Birmania inserita saldamente nel puzzle della
comunità internazionale; ma cosa accadrà nel momento in cui da simbolo si
incarnerà in donna di potere e sarà pure lei chiamata a fare delle scelte che,
qualunque esse siano, porteranno inevitabilmente a crearsi dei nemici? Suu Kyi,
ad esempio, avrà ancora bisogno dei militari per risolvere il nodo tribale ed
evitare la balcanizzazione della nazione. Di tali ostacoli Aung San Suu Kyi è
al corrente, ma pensa che possano essere superati con una sostanziosa dose di
democrazia: “Ciò che la gente della
Birmania vuole oggi è democrazia; una volta raggiunta avremo tutti i mezzi per
risolvere le questioni che affliggono il Paese.” La Birmania ha certamente
bisogno di Aung San Suu Kyi, ma non sarà la sua liberazione a risolverne i
problemi.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento