Non dimenticare la storia


Als die Nazis die Kommunisten holten, habe ich geschwiegen;
ich war ja kein Kommunist.
Als sie die Sozialdemokraten einsperrten, habe ich geschwiegen;

ich war ja kein Sozialdemokrat.
Als sie die Gewerkschafter holten, habe ich nicht protestiert;

ich war ja kein Gewerkschafter.
Als sie die Juden holten, habe ich nicht protestiert;

ich war ja kein Jude.
Als sie mich holten,
gab es keinen mehr, der protestierte.


Quando i nazisti vennero per i comunisti, io restai in silenzio;
non ero comunista.
Quando rinchiusero i socialdemocratici, rimasi in silenzio;
non ero un socialdemocratico.
Quando vennero per i sindacalisti, io non feci sentire la mia voce;
non ero un sindacalista.
Quando vennero per gli ebrei, non protestai;
non ero un ebreo.
Quando vennero per me, non era più rimasto nessuno che potesse far sentire la mia voce.

(Emil Gustav Friedrich Martin Niemöller; Lippstadt, 14 gennaio 1892 – Wiesbaden, 6 marzo 1984)



S-21 - Nella prigione di Pol Pot

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S-21; un romanzo storico, una narrazione viva e potente che porta il lettore in una struttura detentiva istituita dal regime degli Khmer Rossi, una prigione da cui pochi sono tornati, seppur segnati nel corpo e nello spirito, vivi.

IL CUSTODE DI TERRA SANTA - un colloquio con padre Pierbattista Pizzaballa

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FESTIVAL FRANCESCANO 2014 - Rimini, piazza Tre Martiri,SABATO 27 SETTEMBRE - ORE 15.00 Presentazione del libro Il Custode di Terra Santa

INDOCINA - Un libro, una saggio, una guida per chi vuole approfondire

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Myanmar: Sarà Aung San Suu Kyi a risolvere i problemi della nazione? (2000)

Aeroporto di Rangoon, agosto 1988. Una donna sulla trentina, tende il suo passaporto tempestato di visti al poliziotto che, sfogliandolo, ne legge il nome: Aung San Suu Kyi. Senza scomporsi, si affretta a porre il timbro di entrata e saluta la donna che si dirige immediatamente a casa della madre morente, quella Ma Khin Kyi che il 6 settembre 1942 divenne moglie di Aung San, il nazionalista che con la sua lotta contribuì a rendere la Birmania una nazione libera dal giogo coloniale britannico. Aung San venne assassinato nel 1947, quando sua figlia Suu Kyi aveva appena due anni, ma Khin Kyi continuò a crescere i figli secondo gli insegnamenti morali e politici del marito. Per 33 anni, Aung San Suu Kyi sembra interessarsi più allo studio e alla sua famiglia che alla politica. Dopo essere stata diversi anni in India al seguito della madre ambasciatrice ed aver conseguito una laurea in filosofia e economia a Oxford, nel 1972 sposa Michael Arris, con cui rimase legata fino alla sua morte, avvenuta nel 1999 e dal quale ha avuto due figli. E’ l’imminente morte della madre che offre, forse inconsapevolmente, a Aung San Suu Kyi l’occasione di continuare l’opera del padre di costruire una nazione giusta e democratica. Pochi mesi dopo il suo arrivo in Birmania, lo SLORC (Consiglio di Stato per il Ripristino della Legge e dell’Ordine) eredita il potere grazie ad un fittizio colpo di stato che spodesta il generale Ne Win, oramai inviso alla popolazione. In realtà, dietro all’acronimo che rappresentava il nuovo governo, c’è ancora il “grande vecchio” che manovra i fili. Aung San Suu Kyi, come tanti suoi connazionali, lo capisce subito, ma è la sola a denunciarlo pubblicamente durante una manifestazione studentesca il 26 agosto 1988. E’ l’inizio di quella che chiama «la seconda guerra d’indipendenza», una frase che indica a tutti i birmani che lei, la figlia dell’eroe nazione Aung San, intende raccoglierne l’eredità politica. Ma Suu Kyi non si ferma qui: scatenando l’ira dei militari dichiara che la promessa del governo di trasferire il potere ai civili, rimarrà tale; una mera promessa. I generali accusano il colpo e, incapaci di trovare una soluzione al deteriorarsi della situazione mettono Aung San Suu Kyi agli arresti domiciliari. E’ un autogol clamoroso: la fama della donna travalica i confini birmani e la sconosciuta figlia di Aung San si trasforma in Aung San Suu Kyi, l’eroina dei diritti umani a cui, l’anno seguente, viene assegnato il Nobel per la Pace. Nel 1996, anno in cui riesco ad intervistarla afferma che la “Lega Nazionale per la Democrazia è pronta a collaborare con i generali per un governo di coalizione nazionale”. Assorbendo il pragmatismo inglese, Aung San Suu Kyi dimostra di sapere che non potrebbe governare il Myanmar senza l’appoggio dell’esercito: “Ho grandi simpatie per i militari. Li associo alla figura di mio padre e non riesco a provare alcun risentimento contro di essi.” La Suu Kyi è venerata perché è un simbolo: rappresenta la continuità storica della nazione, la voglia di democrazia del popolo, una Birmania inserita saldamente nel puzzle della comunità internazionale; ma cosa accadrà nel momento in cui da simbolo si incarnerà in donna di potere e sarà pure lei chiamata a fare delle scelte che, qualunque esse siano, porteranno inevitabilmente a crearsi dei nemici? Suu Kyi, ad esempio, avrà ancora bisogno dei militari per risolvere il nodo tribale ed evitare la balcanizzazione della nazione. Di tali ostacoli Aung San Suu Kyi è al corrente, ma pensa che possano essere superati con una sostanziosa dose di democrazia: “Ciò che la gente della Birmania vuole oggi è democrazia; una volta raggiunta avremo tutti i mezzi per risolvere le questioni che affliggono il Paese.” La Birmania ha certamente bisogno di Aung San Suu Kyi, ma non sarà la sua liberazione a risolverne i problemi.


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