I sette
giorni che cambiarono il Myanmar. Così potrebbe passare alla storia, nel Paese
asiatico, la seconda settimana di novembre 2010. Alle prime elezioni dopo vent’anni
tenutesi domenica 7, è seguita, ad appena sei giorni di distanza, la
liberazione, tanto attesa quanto insperata, di Aung San Suu Kyi. Pur
rivelandosi un bluff istituzionale, le consultazioni generali hanno mostrato
che la giunta militare sta cercando di riaprire la “road to democracy”, il
percorso politico e sociale che dovrebbe traghettare il Myanmar verso un regime
democratico e pluralista. Il rilascio della leader del movimento democratico
birmano sarebbe la seconda importante tappa di questo tragitto, peraltro
sconnesso e ricco di incongruenze. Una di queste contraddizioni la sperimento
direttamente, allorché, a poche ore dall’apertura dei cancelli della sua villa
sul lago Inya, ho potuto avvicinare la Signora, come viene spesso
soprannominata Aung San Suu Kyi in Myanmar. L’incontro avrebbe dovuto essere un
primo approccio per un’intervista più estesa e dettagliata, per cui avevamo già
concordato tempi e modalità, che però non ha mai potuto avere luogo. Il severo
controllo del regime sull’informazione, atta a filtrare ogni notizia che
trapela dal Myanmar, si è tramutato in un’immediata espulsione dal Paese. «Il visto turistico non permette di
effettuare servizi giornalistici» è la spiegazione data da uno dei due
funzionari che mi notificano l’allontanamento dalla nazione. In effetti, il
solo fatto di essere riuscito ad ottenere un visto d’entrata a ridosso delle
elezioni, dopo che le ambasciata di Roma, Bangkok, Singapore e Kuala Lumpur me
lo avevano negato in quanto “persona non
grata”, è stato un successo. L’essere riuscito, tra mille difficoltà e continui
cambi di hotel per non essere rintracciabile dalla polizia, a seguire tutto il
percorso elettorale fino a incontrare Aung San Suu Kyi, è un ulteriore trionfo.
Dell’incontro con Aung San Suu Kyi riporto le poche frasi che ci siamo
scambiati:
D: Finalmente
libera. Ci credeva o pensava che la Giunta ritirasse all’ultimo momento anche
questa promessa?
ASSK: Non
mi sono mai posta il problema. La giunta ed io abbiamo idee contrapposte sulla
democrazia ed ho sempre sostenuto che la mia libertà non dovesse essere un
pegno utilizzato dalla giunta per raggiungere compromessi.
D: Libertà
significa anche azione, responsabilità e quindi essere oggetto di critiche.
Cosa farà come prima cosa?
ASSK:
Vorrei girare il Paese, incontrare gente, sentire i problemi direttamente da
loro. Fare, insomma, quello che ho sempre fatto quando la Giunta me lo
permetteva.
D: In
carcere ci sono ancora più di duemila prigionieri politici. La sua liberazione
non rischia di far dimenticare al mondo queste persone dai nomi meno noti del
suo?
ASSK: Ha
ragione, la mia libertà non deve far dimenticare che questi difensori della
democrazia che, per le loro idee, sono ancora incarcerate e io mi batterò
affinché anche loro possano vedere aprirsi le spranghe delle celle.
D: La Lega
Nazionale per la Democrazia non si è presentata alle elezioni e quindi non avrà
nessun rappresentante al Parlamento. Come pensa di continuare la sua lotta
politica dall’esterno?
ASSK: Il
problema non è l’assenza dei nostri rappresentanti al Parlamento. Del resto la
nostra posizione è stata chiara fin dal principio: chi l’avesse voluto, poteva
candidarsi liberamente alle elezioni. Il problema però, è che le consultazioni
del 7 novembre, così come la Costituzione, si sono dimostrate un colossale
imbroglio. Parteciparvi significava accettare la Costituzione e ingannare il
popolo. Noi abbiamo scelto di stare dalla parte della democrazia e della verità.
Le poche
frasi scambiateci e le successive interviste rilasciate a media internazionali
e locali, mostrano che Aung San Suu Kyi appare sempre più determinata a
continuare la sua attività politica che le è valsa la popolarità mondiale e un
Premio Nobel per la Pace nel 1991. Governi di tutto il mondo e le
organizzazioni a favore del movimento democratico birmano, hanno salutato, a
ragione, la liberazione di Suu con soddisfazione. Ma valutando attentamente ciò
che la Lady ha sino ad oggi detto, appare chiaramente un mutamento della sua
prospettiva politica. Sembra che i lunghi anni di segregazione le abbiamo
insegnato che per cambiare il regime dei generali non serve il pugno di ferro,
ma una tattica vincente, una prerogativa indispensabile per ogni politico, ma
che a lei è sempre mancata. Sono sempre più, all’interno della Lega Nazionale
per la Democrazia, il partito da lei fondato nel 1988, coloro che si chiedono quali
frutti abbia portato l’intransigenza mostrata sino ad oggi dal Segretario
Generale. Troppe, infatti, sono le occasioni mancate, a partire dal fallimento
dei colloqui con Khin Nyunt, nel 2003, considerato da molti, e a ragione, come
l’unico militare in grado di cambiare le sorti della nazione. Pur continuando a
rappresentare la maggioranza dell’elettorato birmano, l’NLD sta perdendo pezzi.
Un primo gruppo è stato espulso dalla stessa Aung San Suu Kyi nel 1997, un secondo,
più consistente, nel 2003 all’indomani della rottura dei negoziati con Khin
Nyunt, allora numero uno della giunta militare e principale interlocutore con
il movimento democratico. Nell’ottobre 2008, cento membri dell’ala giovanile
dell’LND hanno lasciato il partito perché il nepotismo non lasciava loro
spazio; infine, nel maggio 2010, un altro gruppo di dissidenti guidato da Khin
Maung Shwe, ex portavoce e membro del Comitato Centrale, ha deciso di formare
il National Democratic Force per partecipare alle elezioni di novembre,
contravvenendo le decisioni del partito di boicottare le votazioni. «Gli ideali e i principi di democrazia e di
giustizia di cui sono intrisi gli animi delle persone che formano il nucleo
storico della Lega Nazionale per la Democrazia, purtroppo si stanno
dissolvendo.» spiega Raymond Sumlut Gam, vescovo di Bhamo, che continua: «Molti membri che negli ultimi anni sono
entrati nella Lega non sono poi molto differenti dagli amministratori militari
che abbiamo oggi». Occorre, a questo punto, chiedersi cosa succederebbe se
improvvisamente Aun g San Suu Kyi o un membro del movimento per la democrazia,
potesse assumere le redini del governo: «Il
popolo pretenderebbe cambiamenti radicali immediati che nessuno, attualmente,
sarebbe in grado di garantire» afferma
un diplomatico occidentale. «Ci
sarebbe il rischio di un malcontento diffuso e la rabbia crescerebbe assieme al
sentimento di frustrazione e di disperazione. Il Paese sarebbe seriamente
esposto a disordini sociali.» conclude il politico, che pur rappresentando
un governo che critica aspramente il regime militare, non esita ad esprimere il
suo scetticismo su un improvviso cambiamento di governo. La diplomazia, si sa,
viaggia sempre su piani paralleli: ciò che viene detto quasi mai rispecchia la
reale conduzione politica che viene discussa a porte chiuse. Molto
probabilmente è quanto accaduto con Aung San Suu Kyi. Non a tutti è piaciuto
quanto la leader della Lega Nazionale per la Democrazia ha detto appena
liberata. La richiesta di dialogo e di incontro con Than Shwe a molti,
specialmente a coloro che nel 2003 erano stati espulsi dal partito per aver
criticato l’intransigenza di Aung San Suu Kyi verso Khin Nyunt, sono apparsi dei
voltafaccia inconcepibili: «Than Shwe è
il militare più ottuso e incapace che abbiamo mai avuto: perché ora Aung San
Suu Kyi decide di voler aprire un negoziato con lui quando con Khin Nyunt ha
interrotto le trattative?» si chiede polemicamente Zaw Lin Oo, del Myanmar
Democratic Congress, un partito formato principalmente da esponenti democratici
e attivisti birmani. Anche l’assoluzione data alla Cina riguardo al suo
coinvolgimento nella gestione economica delle risorse del Myanmar, è apparsa a
molti incomprensibile. La dichiarazione secondo cui «Non vi è alcuna prova che la Cina stia depredando le ricchezze della
Birmania» ha dell’incredibile, se non dell’eresia, soprattutto per le
centinaia di organizzazioni che in Occidente da anni si battono a fianco del
Premio Nobel per la Pace e che hanno sempre sostenuto che Pechino, uno dei
principali alleati di Naypyidaw, sia complice di un bracconaggio economico ai
danni del popolo birmano. Ma Aung San Suu Kyi, pur essendo stata agli arresti
domiciliari negli ultimi sette anni, non può non sapere che la più grande economia
asiatica è pesantemente coinvolta nel depauperamento delle risorse naturali
birmane. La Signora ha semplicemente capito che la chiave della svolta politica
nel suo Paese si trova proprio in Cina ed è con essa, più che con i governi
occidentali, che dovrà trovare un modus
vivendi. Lo stesso governo cinese ha tutto l’interesse affinché il processo
di democratizzazione proceda. La Cina, come hanno dimostrato i recenti
conflitti etnici del Kokang nel 2009 e negli stati Kayan e Mon nel novembre
2010, è indispensabile affinché i gruppi minoritari abbiano un interlocutore
valido e affidabile. Aung San Suu Kyi, in quanto bamar e figlia di Aung San,
che non gode di buona fama tra le etnie del Myanmar, non ha potere sulle
periferie del Paese. Una svolta democratica che non escluda a priori i
militari, indispensabili per mantenere unita la nazione, è quindi necessaria
affinché non si ritorni sull’orlo dell’instabilità etnica. E la Cina potrebbe
fare da mediatore tra il governo centrale, i movimenti democratici e le spinte
autonomiste delle minoranze etniche. Ad una studiosa di storia come Aung San
Suu Kyi non è certamente sfuggito che le vicende passate della nazione birmana,
hanno insegnato che tutto, nel Paese, può essere rimesso in discussione in
brevissimo tempo. Dal 1988, anno in cui rientrò in patria per assistere la
madre morente, Aung San Suu Kyi ha trascorso 15 anni agli arresti domiciliari,
venendo liberata in diverse riprese, per poi ritornare coercitivamente alla sua
villa al 54 di University Avenue. Gli stessi generali non sono immuni da
improvvise defenestrazioni: Ne Win, il compagno dell’eroe nazionale e padre di
Suu Kyi, Aung San, e protagonista del putsch che nel 1962 pose fine alla breve
parentesi democratica birmana, è morto agli arresti domiciliari e il suo
successore, Khin Nyunt, è tuttora segregato nella sua dimora a Yangon. Than
Shwe e Maung Aye, rispettivamente numero uno e due del regime, sanno che,
giunti oramai alla fine della loro carriera, le piaggerie di cui sono stati
circondati sino ad oggi, potrebbero tramutarsi in ostilità. I due generali stanno
quindi preparando il terreno per una pensione tranquilla e ricca, per loro e
per i loro accoliti, ritagliandosi probabilmente un posto puramente onorifico
all’interno del nuovo assetto istituzionale. Anche sul boicottaggio economico e
turistico, Aung San Suu Kyi si è detta pronta a rivedere le sue posizioni «Se il popolo vuole veramente che queste
siano tolte». Haral Bockman, Presidente del Norwegian-Burma Committee e
Presidente della Democratic Voice of Burma, afferma che «guardando nel passato, il solo Paese dove l’embargo ha avuto successo
nel cambiare politica, è stato il Sud Africa. In altre nazioni, come Iraq o
Iran, il boicottaggio non ha portato a nulla. Ma in Birmania i generali sono
imbevuti di nazionalismo e un’apertura economica verso il Paese asiatico,
potrebbe radicare ancora più questo sciovinismo.» Eppure, viaggiando per il
Myanmar, risulta chiaro che, specialmente nel campo turistico, la popolazione
accoglie con favore l’arrivo degli stranieri, specialmente quelli che arrivano
individualmente. «Chi è favorevole
all’embargo non è mai stato in Birmania, non ha mai parlato con un birmano, non
ha mai visto le condizioni in cui viviamo» polemizza Ka Bawi, uno studente
di Mawalamyine, sulla costa orientale del paese. Del resto all’interno stesso
della Lega Nazionale per la Democrazia, non ci sono visioni unanimi sul
boicottaggio. La stessa Aung San Suu Kyi, nel 1985 ha scritto un libro dal
titolo inequivocabile: Let’s go to Burma.
Harn Yanghwe, figlio del primo Presidente della Repubblica Birmana e direttore
dell’Euro-Burma Office di Bruxelles, interrogato sulla questione, ha dichiarato
che «I turisti che visitano il paese
tramite agenzie di viaggio locali private o hotel non statali, possono essere
utili perché interagiscono con la gente; ma quelli che utilizzano agenzie
governative o arrivano con pacchetti turistici, generalmente visitano solo
monumenti e si godono il sole sulle spiagge. Questo è un turismo che beneficia
solo i generali ed è questo ciò che noi non accettiamo.» Una voce
controcorrente proviene dalla Chiesa cattolica: l’arcivescovo di Yangon, Mons.
Charles Bo, dice che «ufficialmente
siamo contrari all’embargo, non solo per il Myanmar, ma per tutti i paesi. E’
vero che il boicottaggio colpisce i militari, ma ferisce ancora di più i
birmani. I generali hanno innumerevoli possibilità per aggirare l’embargo. Sono
i semplici cittadini birmani a non poterlo fare.» Mons. Bo si inoltra
anche nella delicata questione affrontata da Aung San Suu Kyi a proposito della
Cina, avvallando la nuova posizione assunta dall’eroina birmana: «Premesso che la situazione in Myanmar
cambierà solo dopo la morte dei quattro leaders militari, il problema
principale che riscontriamo è che la comunità internazionale, e gli Stati Uniti
in modo particolare, continuando a criticare la giunta, la spingono sempre più
verso le braccia della Cina. Quindi ecco due chiavi che potrebbero utilizzare
per riportare il Paese al dialogo: per prima cosa l’Occidente deve cercare di
influenzare la Cina affinché questa induca i militari ad accettare i
cambiamenti. Come seconda cosa gli Stati Uniti devono smetterla di criticare
violentemente il Myanmar e di imporre l’embargo. Gli USA, invece, dovrebbero
cambiare atteggiamento ed essere più aperti con il Myanmar.» L’amministrazione
Obama sembra aver capito che questa è la strada da intraprendere. Hillary
Clinton si è detta disposta a rivedere la posizione di Washington sul problema
del boicottaggio e ad intraprendere un dialogo con la giunta militare. Da parte
sua i generali sembrano finalmente disposti ad allentare la presa sul Paese. Le
elezioni, seppur falsificate nei loro risultati, e ancor più il rilascio di
Aung San Suu Kyi potrebbero essere le prime pedine mosse sulla scacchiera
birmana.
Copyright ©Piergiorgio Pescali
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