Il prolungamento degli
arresti domiciliari di Aung San Suu Kyi, confermato il 25 maggio scorso, non è
stato certo una sorpresa e i militari sanno fin troppo bene che la ola di indignazione mondiale che ha
seguito la notizia, scemerà altrettanto velocemente. Tutto è caduco, tutto muta
e ciò che oggi è, domani non sarà. E’ una delle leggi del buddismo e questa
regola, aggiunta alle altre del dharma,
ha contribuito a modellare la politica di tutte le forze del Paese, sia
militari che dell’opposizione. Bisogna partire da queste basi per poter
comprendere il comportamento, per noi incomprensibile, del governo del Myanmar
e del perché un popolo sottomesso e impoverito che, per il 60%, nel 1990 aveva
votato per l’NLD di Suu, non si sia ribellato quando i militari hanno annullato
le elezioni. Il dukkha,
schematicamente tradotto in “dolore”, l’ingrediente principale che edifica la
vita di questo mondo secondo la filosofia buddista, consente al birmano di
accettare con rassegnazione e ineluttabilità tutto quanto gli viene imposto
dall’alto. Sarà nella prossima rinascita che raccoglierà i frutti di questa sua
passività non violenta. E’ per questo che le lotte per l’autodeterminazione e
l’indipendenza che ancora oggi affliggono parti del Paese, sono per lo più
condotte da popolazioni di fede animista, cristiana o islamica. Non è, inoltre,
un caso che i movimenti di ribellione birmani siano stati fondati e coordinati
da due personaggi la cui formazione intellettuale è stata influenzata da idee
occidentali: Aung San e la figlia, Aung San Suu Kyi, appunto. E’ questo
sincretismo culturale che noi occidentali non riusciamo a comprendere appieno.
Per noi, Suu è soprattutto il Premio Nobel per la Pace, la donna che vuole
portare la democrazia in Birmania. Qui, in questa parte d’Asia, invece, è
conosciuta come la figlia dell’eroe nazionale Aung San, il generale stratega,
intellettuale, che con la sua politica donò al Paese l’indipendenza. Ed è
proprio quest’ultima pesante eredità storica che ha fatto di Aung San Suu Kyi
una delle spine nel fianco del regime birmano. Le accuse che dal 1988, anno in
cui l’allora quarantatreenne Suu rientrò da Oxford per accudire la madre
morente, i militari le hanno lanciato, si sono focalizzate sulla presunta
estraneità al tessuto sociale e culturale birmano.
«Aung
San Suu Kyi ha vissuto all’estero dall’età di 15 anni, ha frequentato scuole
delle elite occidentali, ha sposato un inglese. Cosa ne può sapere di ciò che è
bene o male per il popolo?»
mi ha detto alla fine degli anni 90, un alto ufficiale della giunta. Da allora
la visione che il governo nutre di questa donna, non è mutata. Eppure,
viaggiando in questo Paese che dal 1989, in nome di un ripescaggio culturale
anticolonialista e antioccidentale, non si chiama più Birmania, ma Myanmar, la
visione della politica sta mutando. Certo, per scoprirlo occorre scavare,
grattare la patina di intonaco mentale che 45 anni di oppressione e dittatura
hanno cementato e annichilito la volontà di lottare dei birmani. Ma loro, i
birmani, hanno voglia di parlare, di esprimere le loro idee. E a microfoni
spenti, a bassa voce, al chiuso di una stanza per essere sicuri di non essere
spiati, si sfogano. Ahh, sì… e come si sfogano! Basta saperli ascoltare anche
se non sempre ciò che dicono non è esattamente quello che ci aspetteremmo di
sentire. No, come in Afghanistan, in Iran, in Iraq, anche in Myanmar i buoni
non sempre sono buoni e i cattivi non sempre sono così cattivi. Il quadro è più
complicato visto che molti, specie tra gli intellettuali e gli stranieri che
lavorano nelle NGO, hanno parole per criticare tutti: militari, NLD,
socialisti, comunisti…
«Conosco
alcuni militanti locali dell’NLD e non mi sentirei di esultare se andassero al
potere al posto dei militari» confida uno studente facente parte di
un movimento militante di sinistra.
«L’NLD? E’ la nostra unica speranza, ma senza l’aiuto dell’Occidente 55 milioni
di birmani sono ostaggio della giunta» controbatte un altro studente
apertamente a favore della Lega Nazionale per la Democrazia.
E in questo mitragliare
tutto e tutti, solo Lei si salva: la Daw o la Lady, come è stata soprannominata
per evitare di pronunciare un nome che potrebbe “incuriosire” qualcuna delle 30
o 50.000 spie prezzolate disseminate ovunque. «Aung San Suu Kyi è isolata, nella sua casa di Yangon non conosce la
realtà della nazione e deve fidarsi di ciò che le viene riferito dai suoi
compagni di partito- afferma un volontario straniero che lavora in Birmania
da diversi anni, «Lei è la pura del partito,
la faccia onesta che viene mostrata al mondo, ma il partito, i suoi dirigenti,
non sono diversi dai militari e una volta conquistato il potere, Suu potrebbe
far la fine che fece Sihanouk in Cambogia durante il regime dei Khmer Rossi».
Quale futuro quindi per il Myanmar, o Birmania? La giunta militare sa che il
Paese deve cambiare; lo status quo
non può durare a lungo e l’anno di prolungamento degli arresti di Suu potrebbe
anche essere un periodo transitorio in attesa del cambio al vertice. Cambio che,
ormai sempre più analisti considerano inevitabile, ma che tutti sperano lento
per evitare di far precipitare del Paese nell’anarchia etnica. Oggi il Myanmar
è unito solo perché c’è un entità – il Tatmadaw – che con la forza e il terrore
riesce a contrastare le forze centrifughe del nazionalismo etnico. Than Shwe,
il numero uno dell’SPDC, è malato e mostra segni di squilibrio mentale, ma
riesce ancora a mantenere i suoi uomini chiave nei tre centri strategici del
potere: il Comando Militare di Yangon, il Responsabile della Sicurezza di
Yangon e il Comando Generale del Tatmadaw, le Forze Armate. La sua morte
potrebbe riaprire la via della democrazia che il suo predecessore, Khin Nyunt,
aveva inaugurato invitando la Lady al dialogo. «Daw è stata troppo intransigente» ha detto U Than Tun, espulso
dall’NLD nel 1997 per essersi mostrato favorevole al dialogo con i militari.
Forse era profeta in patria, visto che Kin Nyunt oggi è agli arresti
domiciliari proprio per la sua apertura all’opposizione mentre l’ala dura dei
militari ha ripreso il potere epurando tutti i moderati. Nel frattempo Maung
Aye, Vice Presidente dell’SPDC e probabile successore di Than Shwe, sta facendo
le sue prime mosse: la nuova costituzione, riscritta in modo da garantire ai
militari un ruolo preminente nel futuro del Paese comunque vadano le cose,
procede lentamente. Per riavvicinare il popolo al Tatmadaw e assicurarsi un
esito favorevole al referendum costituzionale, a metà febbraio circa mille
ufficiali di medio livello hanno avuto l’ordine di dimettersi da incarichi
pubblici, lasciando il posto a civili comunque compiacenti. Il cambio sarebbe
di facciata, ma potrebbe essere una prima mossa per una nuova stagione politica
con un posto anche per Aung San Suu Kyi. Solo lei potrebbe garantire la
sicurezza dei militari in caso di un cambio al vertice. E’ per il loro futuro
che Suu è ancora in vita.
Copyright ©Piergiorgio Pescali
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