Gli U2 le hanno dedicato una canzone (Walk on), ma lei non
l’ha mai potuta sentire direttamente perché il governo ha censurato il pezzo;
ha vinto un Premio Nobel per la Pace (nel 1991), ma non le è stato permesso di
ritirarlo personalmente; suo marito, Michael Arris è morto nel 1999, ma non ha
voluto assistere ai suoi funerali perché le sarebbe stato impedito il ritorno
in patria. E lei, Aung San Suu Kyi, la combattiva donna birmana liberata lo
scorso 7 maggio dopo quasi 13 anni di arresti domiciliari ama il suo popolo
quanto se stessa. Anzi, forse più di se stessa, come dimostrano i tre
avvenimenti appena descritti, al punto di sacrificare anche la sua famiglia,
compresi i due figli, per la lotta contro l’oppressione e l’ingiustizia. La
vocazione dell’eroina, Aung San Suu Kyi l’ha nel sangue, ereditata direttamente
dal padre, Aung San, che dopo aver guidato la guerra d’indipendenza contro i
britannici, morì assassinato nel 1947 senza poter veder ammainare la Union Jack
dalla Birmania e lasciando la moglie Ma Khin Kyi sola ad allevare la figlia di
soli due anni. Dopo gli anni della gioventù trascorsi in India assieme alla
madre, nominata ambasciatrice del nuovo stato birmano, Suu Kyi si laurea ad
Oxford in Filosofia ed Economia, dove conosce il futuro marito che sposa nel
1972, stabilendosi nella cittadina inglese. Sarà l’aggravarsi della salute
della madre a indurre Aung San Suu Kyi a rientrare in Birmania nel 1988 e il
DNA paterno prende immediatamente il sopravvento, inducendo la donna birmana ad
esporsi personalmente contro il regime militare fondando la Lega Nazionale per
la Democrazia (LND). Guidati dalla combattiva figlia di Aung San, rinchiusa
nella sua casa del 54 University Avenue di Yangoon, milioni di birmani,
specialmente gli studenti ritrovano il coraggio di contestare i generali e di
votare contro di loro nelle elezioni del 27 maggio 1990. Sorpresi di tanta
determinazione, lo SLORC (Consiglio di Stato per il Ripristino della Legge e
dell’Ordine), la sigla del governo dietro cui si cela l’esercito, annulla le
consultazioni, ma fa esplodere l’indignazione del mondo. Boicottaggi,
manifestazioni, embarghi, proteste ufficiali piovono sui militari che, pressati
economicamente e politicamente decidono, dopo 13 anni di braccio di ferro, di
allentare la morsa liberando Aung San Suu Kyi. Se la promessa verrà mantenuta
(alla Suu Kyi erano già stati tolti gli arresti diverse volte per brevi
periodi) ora l’eroina dei diritti umani birmani si troverà a dover far fronte a
una serie di problemi irrisolti sin dalla fondazione della Federazione e di non
facile soluzione. La Birmania, oggi rinominata Myanmar, è una nazione in cui le
componenti tribali hanno una forte tendenza centrifuga e solo un esercito forte
e ben armato, assieme a favorevoli accordi economici concessi ai vari leaders
etnici, sono riusciti ad evitare la disgregazione. «Dopotutto
anche lei è una barman, una birmana» mi ha detto un
leader Karenni scuotendo la testa, sottolineando la sfiducia che regna tra gli
stati del nord sull’abilità di Aung San Suu Kyi di porre fine al decennale
conflitto. E lei, donna forte, idealista, ma anche pragmatica, già nel 1996,
anno in cui la incontrai e intervistai, non escludeva un’alleanza con i
militari, senza il cui appoggio non sarebbe possibile governare il Myanmar. «Penso
sia possibile avere un governo democratico con l’appoggio dell’esercito se solo
si eliminassero i vecchi generali che hanno governato la Birmania fino ad oggi».
Una scelta, se verrà attuata, che susciterà certamente polemiche all’interno
anche della stessa LND, in particolare tra l’ala studentesca che più di tutte
ha subito la repressione militare. Ma Aung San Suu Kyi, donna intelligente,
integerrima e internazionalmente rispettata, sa che chi è al potere deve fare
delle scelte. E le scelte, si sa, qualunque esse siano, portano a crearsi dei
nemici.
Copyright ©Piergiorgio Pescali
Nessun commento:
Posta un commento