Il 6 maggio 2002 la giunta militare che governa il Myanmar
ha tolto gli arresti domiciliari a Aung San Suu Kyi, leader della Lega
Nazionale per la Democrazia (LND) e figlia di Aung San, promotore
dell’indipendenza della Birmania dal colonialismo britannico. Nonostante Aung
San Suu Kyi avesse solo due anni quando suo padre venne assassinato nel 1947,
la madre, Ma Khin Kyi, ex infermiera del Rangoon General Hospital, crebbe la
famiglia rispettando gli insegnamenti del marito e impartendoli con dovizia ai
propri figli. Accompagnando la madre ambasciatrice in India, studiando a
Oxford, sposando un accademico inglese tibetologo e soggiornando ora in
Giappone, ora in Bhutan, Suu Kyi girò il mondo e dal mondo mutuò preziosi
consigli per restaurare nel suo Paese la democrazia perduta nel 1962 quando Ne
Win prese il potere con un colpo di stato. Ne Win era un generale populista,
socialisteggiante, buddista e autarchico. Era, insomma, un po’ tutto e, come
spesso accade a chi pensa che idee nebulose e confuse possano accontentare
tutti, ben presto fece precipitare il paese nel caos economico e sociale. In
pochi anni in Birmania si formò un movimento di opposizione formato
principalmente da studenti che venne duramente represso dai militari. Aung San
Suu Kyi, da Londra, dove risiedeva con il marito e i suoi due figli, seguiva le
vicende del suo Paese senza poter intervenire direttamente. Fino al 1988, anno
in cui rientrò in patria per accudire la madre morente. Fu l’inizio della
svolta: in pochi mesi divenne leader del partito da lei stessa fondato, la Lega
Nazionale per la Democrazia e il 20 luglio 1989 la giunta militare succeduta a
Ne Win la confinò agli arresti domiciliari. Il giorno prima Suu Kyi aveva
conquistato con la sua oratoria, il suo fascino e, soprattutto, il ricordo di
suo padre, migliaia di dimostranti radunatisi a Rangoon. Affermando di voler
lanciare una «seconda lotta per
l’indipendenza», la giovane donna non solo dichiarava guerra ai generali e
a quello che essi rappresentavano (corruzione, dittatura, arretratezza
economica), ma raccoglieva ufficialmente l’eredità paterna. La popolarità di
Aung San Suu Kyi si mostrò in tutta la sua imponenza nelle elezioni del 27
maggio 1990, quando l’82% dell’elettorato votò a favore della LND. I militari,
sorpresi e spaventati da tale successo, annullano il verdetto scatenando
un’ondata di proteste non solo in Birmania, ma in tutto il mondo. Aung San Suu
Kyi viene eretta a simbolo di tutti coloro che, battendosi per i diritti umani,
vengono per questo perseguitati. Amnesty International ne chiede l’immediata
liberazione, gli U2 le dedicano una stupenda canzone (Walk on), il regista John Boorman ne celebra la figura in un brutto
film con Patricia Arquette (Oltre Rangoon),
mentre a Stoccolma il Premio Nobel per la Pace assegnatole nel 1991, viene
ritirato dal figlio maggiore perché lei, Suu Kyi, sa che se uscirà dal Myanmar,
il governo non le darà il permesso di rientrare. Per questo stesso motivo non
potrà neppure assistere ai funerali del marito, morto di cancro a Londra nel 1999,
nonostante, dal 10 luglio 1995 al settembre 2000 godette di un regime di
semilibertà. La nuova liberazione del 6 maggio ripropone la leader birmana al
centro della vita politica di una nazione che, oltre alle difficili condizioni
economiche e sociali, la vede lacerata al nord da una serie di lotte condotte
da diversi gruppi tribali per ottenere una maggiore autonomia dal regime
centrale. Se Aung San Suu Kyi vuole tenere unito il Paese sa che non può
permettersi di alienarsi la simpatia dei militari e questo la pone in una
situazione difficile, qualunque scelta essa faccia. Gli studenti, che l’hanno
sempre appoggiata incondizionatamente, non vedrebbero di buon occhio
un’alleanza con i generali, mentre i leaders tribali considerano Suu Kyi come
una barman, una birmana estranea ai
loro interessi e alla loro cultura con tutta la diffidenza che ne deriva.
Copyright ©Piergiorgio Pescali
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