Non dimenticare la storia


Als die Nazis die Kommunisten holten, habe ich geschwiegen;
ich war ja kein Kommunist.
Als sie die Sozialdemokraten einsperrten, habe ich geschwiegen;

ich war ja kein Sozialdemokrat.
Als sie die Gewerkschafter holten, habe ich nicht protestiert;

ich war ja kein Gewerkschafter.
Als sie die Juden holten, habe ich nicht protestiert;

ich war ja kein Jude.
Als sie mich holten,
gab es keinen mehr, der protestierte.


Quando i nazisti vennero per i comunisti, io restai in silenzio;
non ero comunista.
Quando rinchiusero i socialdemocratici, rimasi in silenzio;
non ero un socialdemocratico.
Quando vennero per i sindacalisti, io non feci sentire la mia voce;
non ero un sindacalista.
Quando vennero per gli ebrei, non protestai;
non ero un ebreo.
Quando vennero per me, non era più rimasto nessuno che potesse far sentire la mia voce.

(Emil Gustav Friedrich Martin Niemöller; Lippstadt, 14 gennaio 1892 – Wiesbaden, 6 marzo 1984)



S-21 - Nella prigione di Pol Pot

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S-21; un romanzo storico, una narrazione viva e potente che porta il lettore in una struttura detentiva istituita dal regime degli Khmer Rossi, una prigione da cui pochi sono tornati, seppur segnati nel corpo e nello spirito, vivi.

IL CUSTODE DI TERRA SANTA - un colloquio con padre Pierbattista Pizzaballa

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FESTIVAL FRANCESCANO 2014 - Rimini, piazza Tre Martiri,SABATO 27 SETTEMBRE - ORE 15.00 Presentazione del libro Il Custode di Terra Santa

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Myanmar: Aung San Suu Kyi (2002)


Il 6 maggio 2002 la giunta militare che governa il Myanmar ha tolto gli arresti domiciliari a Aung San Suu Kyi, leader della Lega Nazionale per la Democrazia (LND) e figlia di Aung San, promotore dell’indipendenza della Birmania dal colonialismo britannico. Nonostante Aung San Suu Kyi avesse solo due anni quando suo padre venne assassinato nel 1947, la madre, Ma Khin Kyi, ex infermiera del Rangoon General Hospital, crebbe la famiglia rispettando gli insegnamenti del marito e impartendoli con dovizia ai propri figli. Accompagnando la madre ambasciatrice in India, studiando a Oxford, sposando un accademico inglese tibetologo e soggiornando ora in Giappone, ora in Bhutan, Suu Kyi girò il mondo e dal mondo mutuò preziosi consigli per restaurare nel suo Paese la democrazia perduta nel 1962 quando Ne Win prese il potere con un colpo di stato. Ne Win era un generale populista, socialisteggiante, buddista e autarchico. Era, insomma, un po’ tutto e, come spesso accade a chi pensa che idee nebulose e confuse possano accontentare tutti, ben presto fece precipitare il paese nel caos economico e sociale. In pochi anni in Birmania si formò un movimento di opposizione formato principalmente da studenti che venne duramente represso dai militari. Aung San Suu Kyi, da Londra, dove risiedeva con il marito e i suoi due figli, seguiva le vicende del suo Paese senza poter intervenire direttamente. Fino al 1988, anno in cui rientrò in patria per accudire la madre morente. Fu l’inizio della svolta: in pochi mesi divenne leader del partito da lei stessa fondato, la Lega Nazionale per la Democrazia e il 20 luglio 1989 la giunta militare succeduta a Ne Win la confinò agli arresti domiciliari. Il giorno prima Suu Kyi aveva conquistato con la sua oratoria, il suo fascino e, soprattutto, il ricordo di suo padre, migliaia di dimostranti radunatisi a Rangoon. Affermando di voler lanciare una «seconda lotta per l’indipendenza», la giovane donna non solo dichiarava guerra ai generali e a quello che essi rappresentavano (corruzione, dittatura, arretratezza economica), ma raccoglieva ufficialmente l’eredità paterna. La popolarità di Aung San Suu Kyi si mostrò in tutta la sua imponenza nelle elezioni del 27 maggio 1990, quando l’82% dell’elettorato votò a favore della LND. I militari, sorpresi e spaventati da tale successo, annullano il verdetto scatenando un’ondata di proteste non solo in Birmania, ma in tutto il mondo. Aung San Suu Kyi viene eretta a simbolo di tutti coloro che, battendosi per i diritti umani, vengono per questo perseguitati. Amnesty International ne chiede l’immediata liberazione, gli U2 le dedicano una stupenda canzone (Walk on), il regista John Boorman ne celebra la figura in un brutto film con Patricia Arquette (Oltre Rangoon), mentre a Stoccolma il Premio Nobel per la Pace assegnatole nel 1991, viene ritirato dal figlio maggiore perché lei, Suu Kyi, sa che se uscirà dal Myanmar, il governo non le darà il permesso di rientrare. Per questo stesso motivo non potrà neppure assistere ai funerali del marito, morto di cancro a Londra nel 1999, nonostante, dal 10 luglio 1995 al settembre 2000 godette di un regime di semilibertà. La nuova liberazione del 6 maggio ripropone la leader birmana al centro della vita politica di una nazione che, oltre alle difficili condizioni economiche e sociali, la vede lacerata al nord da una serie di lotte condotte da diversi gruppi tribali per ottenere una maggiore autonomia dal regime centrale. Se Aung San Suu Kyi vuole tenere unito il Paese sa che non può permettersi di alienarsi la simpatia dei militari e questo la pone in una situazione difficile, qualunque scelta essa faccia. Gli studenti, che l’hanno sempre appoggiata incondizionatamente, non vedrebbero di buon occhio un’alleanza con i generali, mentre i leaders tribali considerano Suu Kyi come una barman, una birmana estranea ai loro interessi e alla loro cultura con tutta la diffidenza che ne deriva.

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