Non dimenticare la storia


Als die Nazis die Kommunisten holten, habe ich geschwiegen;
ich war ja kein Kommunist.
Als sie die Sozialdemokraten einsperrten, habe ich geschwiegen;

ich war ja kein Sozialdemokrat.
Als sie die Gewerkschafter holten, habe ich nicht protestiert;

ich war ja kein Gewerkschafter.
Als sie die Juden holten, habe ich nicht protestiert;

ich war ja kein Jude.
Als sie mich holten,
gab es keinen mehr, der protestierte.


Quando i nazisti vennero per i comunisti, io restai in silenzio;
non ero comunista.
Quando rinchiusero i socialdemocratici, rimasi in silenzio;
non ero un socialdemocratico.
Quando vennero per i sindacalisti, io non feci sentire la mia voce;
non ero un sindacalista.
Quando vennero per gli ebrei, non protestai;
non ero un ebreo.
Quando vennero per me, non era più rimasto nessuno che potesse far sentire la mia voce.

(Emil Gustav Friedrich Martin Niemöller; Lippstadt, 14 gennaio 1892 – Wiesbaden, 6 marzo 1984)



S-21 - Nella prigione di Pol Pot

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S-21; un romanzo storico, una narrazione viva e potente che porta il lettore in una struttura detentiva istituita dal regime degli Khmer Rossi, una prigione da cui pochi sono tornati, seppur segnati nel corpo e nello spirito, vivi.

IL CUSTODE DI TERRA SANTA - un colloquio con padre Pierbattista Pizzaballa

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FESTIVAL FRANCESCANO 2014 - Rimini, piazza Tre Martiri,SABATO 27 SETTEMBRE - ORE 15.00 Presentazione del libro Il Custode di Terra Santa

INDOCINA - Un libro, una saggio, una guida per chi vuole approfondire

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Dubai


Fino a quarant’anni fa la costa araba che si affacciava sul golfo Persico era divisa da sette minuscoli regni abitati da 44 diverse tribù il cui unico comun denominatore era la lingua e il senso d’appartenenza alla umma, la comunità islamica. Piccoli stati, divisi, poverissimi, senza alcuna risorsa se non la sabbia; 83.600 chilometri quadrati di deserto che per 1.318 chilometri si tuffavano nelle acque del Golfo Persico. Lungo la sabkha, la fascia costiera prospiciente il mare, sorgevano piccoli porticcioli, abitati per lo più da pescatori e da commercianti che, con i loro piccoli dhows, veleggiavano verso i paesi limitrofi trasportando merci di poco valore. Poi, nel 1971, uno sceicco più intraprendente e lungimirante di tutti, Zayed bin Sultan Al Nahyan, propose ad altri stati di formare una federazione con il suo regno, Abu Dhabi, che, oltre a garantirsi l’indipendenza dall’impero britannico, avrebbero ottenuto forza politica ed economica sufficiente per ritagliarsi uno spazio tra i giganti arabi. Cosa potevano fare, infatti, quelle minuscole monarchie sottopopolate, povere, senza una storia e prive di una cultura specifica, di fronte a nazioni come Arabia Saudita, Iran, Iraq, Yemen? Da sole sarebbero state sottomesse all’uno o all’altro stato; insieme, forse, avrebbero potuto sopravvivere. E così il 2 dicembre 1971, nel Guesthouse Palace di Dubai,  Abu Dhabi, Dubai, al-Fujairah, Sharjah, Umm al-Quawain e Ajman siglarono la Costituzione  che sanciva la nascita degli Emirati Arabi Uniti. Qatar e Bahrein, anche loro invitati ad unirsi alla neonata nazione dopo aver condiviso il periodo coloniale britannico, preferirono seguire una loro strada; Ras al-Khaymah, invece, decise di unirsi al progetto l’anno seguente.

Da allora, l’ascesa economica dei sette nani, trascinata dall’estrazione del petrolio, divenne inarrestabile. A garantire lo sviluppo degli Emirati, contribuì il conflitto dello Yom Kippur che portò gli Stati Uniti ad assicurare aiuti militari allo stato d’Israele in guerra contro una coalizione guidata da Egitto e Siria appoggiata da forze giordane ed irachene. Gli stati arabi, di fronte all’inaspettata debacle militare di Damasco e Il Cairo, decisero di utilizzare il petrolio come arma contro quei paesi occidentali considerati alleati di Israele: il 16 ottobre 1973 l’OPEC (l’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio), a cui anche gli Emirati aderivano, decise di aumentare il prezzo del petrolio del 70%. In pochi mesi, grazie a quello che venne soprannominato “l’oro nero”, i vari sceicchi del mondo arabo si trovarono le casse ricolme di dollari. Ma, a differenza degli altri leader, Zayed bin Sultan Al Nahyan imboccò la strada della moderazione. Intuendo prima degli altri colleghi, o forse solo perché fu più previdente, che il petrolio non sarebbe durato in eterno, il presidente degli emirati utilizzò l’immenso forziere liquido su cui camminava, per preparare le fondamenta di uno sviluppo che non si basasse esclusivamente sul greggio. Nacque così l’idea, dapprima solo abbozzata e, forse, considerata anche un po’ folle, di trasformare un minuscolo e sconosciuto porticciolo di pescatori come Dubai, in uno dei più importanti centri finanziari mondiali. L’idea, per la verità, non era nuova: già nel medioevo i porti che si affacciavano sul Golfo Persico erano importanti crocevia per i commerci regionali. Fu, anzi, il veneziano Gaspero Balbi, nel 1580, a nominare nel suo diario l’industria perlifera che fioriva lungo le coste di Dubai. Nei mercati di Venezia le perle di Dibei erano tra le mercanzie più ambite dalla nobiltà e le piccole sferette di madreperla rimasero l’unica risorsa del porto arabo fino agli anni Trenta del Novecento, quando l’industria delle perle artificiali indusse il governatore del regno, lo sceicco Saeed bin Hasher al Maktoum ed in particolare il suo successore Rashid bin Saeed al Maktoum, a cercare altre forme di sviluppo. Dapprima fu l’ampliamento del porto di Dubai, avviato nel 1963, ad attirare i primi investimenti. La favorevole posizione geografica, situata a pochi chilometri dalle coste iraniane e la presenza di numerosi commercianti indiani, portò la città a diventare il principale centro di scambio dell’oro nel Medio Oriente. «Ancora oggi il Gold Souk è una delle attrazioni turistiche e commerciali più visitate di Dubai, ma pochi sanno che proprio da queste stradine si è costruita l’immensa ricchezza della metropoli» spiega Praful Soni, proprietario della Shyam Jewellers, una delle più antiche oreficerie della città.

Ma gli ambiziosi piani della famiglia Maktoum non avrebbero potuto realizzarsi senza lo sfruttamento di quello che è stato il vero propellente dello sviluppo del piccolo regno arabo: il petrolio. La scoperta alla metà degli anni Sessanta dei primi giacimenti, ha permesso lo sviluppo di una fiorente industria, consentendo a Dubai di prevalere sull’eterna rivale Abu Dhabi, capitale politica degli Emirati Arabi Uniti. Una prosperità che sarebbe stata effimera, quella di Dubai, visto che già nel 2025 gli esperti prevedono che le viscere dello sceiccato si prosciugheranno. «La ricchezza petrolifera degli Emirati è sempre stata monopolizzata da Abu Dhabi» mi dice Hisham Abdullah Al Shirawi, vice presidente della Camera di Commercio di Dubai, «ma Dubai ha saputo diversificare in tempo le proprie risorse, mantenendo una supremazia economica e culturale riconosciuta da tutto il mondo».

L’attuale governatore di Dubai, Sheikh Mohammed bin Rashid Al Maktoum, ha saputo anticipare gli eventi sino a ridurre al 6% i ricavi economici derivanti dall’export petrolifero (contro il 25% dell’intera nazione) trasformando la città in una sorta di calamita per gli investimenti stranieri. Chi arriva qui e si aspetta di trovare pozzi petroliferi, raffinerie e le tipiche fiamme che illuminano la notte delle desolate lande del deserto, rimane deluso. Dubai si è trasformata in un centro finanziario mondiale e la città è il centro nevralgico non solo della nazione, ma dell’intero Medio Oriente. Nel suo immenso aeroporto, il quarto del pianeta, transitano 60 milioni di passeggeri all’anno trasportati da 150 compagnie che collegano 220 destinazioni, mentre nelle 49 banchine del porto di Dubai i 30.000 lavoratori smistano annualmente 12 milioni di TEU (l’unità di misura standard nel trasporto dei container; un container da 6,1 metri corrisponde a 1 TEU, ndr). Il PIL, pari a 50 miliardi di Euro, è garantito per il 22,6% dagli investimenti immobiliari, per il 16% dal commercio e per l’11% dai servizi finanziari.

Ma Dubai è ancora febbricitante: il ricordo della crisi che ha colpito la finanza, ma ancora più duramente, l’orgoglio di tutti gli Emirati, è una ferita ancora aperta.

Già, la “crisi del debito di Dubai”. Così è stata chiamata dal mondo finanziario, la più grave congiuntura che ha colpito la monarchia islamica in tutta la sua storia e che ha rischiato seriamente di far crollare l’impero creato dalla famiglia Al-Maktoum.

Il 29 novembre 2009 il colosso Dubai World, il principale conglomerato imprenditoriale dell’Emirato controllato dalla casa regnante, aveva annunciato di non essere in grado di far fronte al pagamento di 26 miliardi di dollari di debiti, tra cui 4 miliardi di USD di sukuk, i bond islamici, i prodotti finanziari più importanti di tutto il mondo musulmano. Senza finanziamenti, il gioiello del Dubai World, il Burj Dubai, la Torre di Dubai, il più alto grattacielo al mondo, oramai quasi ultimato, avrebbe rischiato di rimanere un immenso cantiere aperto, e la sua guglia incompiuta a 828 metri di altezza si sarebbe trasformata in un chiodo arrugginito piantato nel centro della città a simboleggiare il fallimento della sua economia.

A soccorrere Dubai è intervenuta però l’eterna rivale Abu Dhabi, con un prestito di 10 miliardi di dollari che ha permesso di terminare la costruzione del Burj Dubai. Che, stranamente (ma non troppo), a pochi giorni dall’inaugurazione avvenuta il 4 gennaio 2010, ha cambiato nome: Burj al-Khalifa, la Torre del Califfo, un omaggio, neppure troppo celato, a Khalifa bin Zayed Al Nahayan, presidente degli Emirati Arabi Uniti e sceicco di Abu Dhabi. Insomma, uno schiaffo alla famiglia Al-Maktoum che molti analisti hanno interpretato come una volontà di ridistribuzione di poteri all’interno dell’Emirato. Abu Dhabi, infatti, pur essendo la capitale politica dello stato, è sempre stata economicamente in secondo piano rispetto a Dubai.

Christopher Davidson, professore di politica del medio oriente alla Durham University, asserisce che «La crisi del 2009 ha fatto perdere a Dubai l’autonomia che, de facto, aveva da 170 anni. Ora è Abu Dhabi l’emirato emergente ed è chiaro che la capitale degli EAU sta cercando di dare un’impronta più centralizzata e meno autonomista all’intera nazione».

La costituzione redatta all’atto della fondazione degli Emirati, garantisce a Dubai e a Ras al-Khaimah di avere proprie corti giudiziarie indipendenti da quella federale centrale e, con Abu Dhabi, Dubai è il solo emirato della federazione che ha diritto di veto su questioni nazionali. Sebbene non si sia ancora giunti ad una revisione costituzionale, Abu Dhabi ha approfittato della crisi finanziaria per iniziare la sua ascesa economica in competizione con Dubai. La compagnia di bandiera di Abu Dhabi, la Etihad, sta togliendo importanti fette di mercato alla Emirates Airlines; la capitale si è aggiudicata lo svolgimento del Gran Premio di Formula 1 ed ha costruito il Ferrari World, l’unico parco a tema al mondo dedicato alla scuderia di Maranello. Nei prossimi anni verranno inaugurati musei come il Louvre Abu Dhabi e il Guggenheim, mentre l’aeroporto, che oggi ospita 12 milioni di passeggeri all’anno, sta per essere ampliato in modo da garantirne il transito di 40 milioni. Infine, dulcis in fundo, durante la visita della regina Elisabetta d’Inghilterra nel novembre 2010, lo sceicco di Abu Dhabi ha ufficialmente varato il suo programma nucleare che vede accordi con Stati Uniti, Corea del sud, Francia e Gran Bretagna e la costruzione di 4 reattori entro il 2020.

Insomma, viene da chiedersi se la prospettiva proposta nel 2007 da Sheikh Mohammad bin Rashid Al-Maktoum, di trasformare Dubai in «una città araba di importanza globale che rivaleggi storicamente con Cordoba e Baghdad» si sia arenata.

«Non è facile rispondere a questa domanda» afferma Stephanie Fisher, consulente dell’American Business Council di Dubai; «governo e ditte private non rilasciano dichiarazioni facilmente ed è quindi obiettivamente difficile capire come stia andando l’economia dell’Emirato».

Comunque è chiaro che la megalomania araba si è alquanto ridimensionata. Basta andare a fare un giro con la sofisticata linea della metropolitana, costata più di 4 miliardi di dollari, per accorgersi che numerosi cantieri sono ancora fermi e che tra una zona e l’altra, vi sono chilometri di “nulla”. Aree di sabbia da anni precettate dai conglomerati finanziari e su cui, in attesa di tempi migliori, sorgeranno futuristici parchi, campi da golf, hotel, parchi tematici, grattacieli, centri commerciali.

«Sulla carta ci sono progetti per quasi 500 miliardi di dollari, ma molti sono stati sospesi per mancanza di liquidità» mi dice Ahmad Othman, dell’Ufficio Comunicazioni della HSBC, una delle maggiori agenzie finanziarie e bancarie del mondo.

Delle famose isole artificiali, tutte progettate e costruite dalla Nakheel, appartenente, manco a dirlo, alla famiglia reale, solo una, The Palm Jumeirah, è stata quasi ultimata. Gli altri progetti, compresi i tanto reclamizzati The World Islands, The Universe, Palm Deira e Dubai Waterfront, sono stati interrotti o la data di completamento procrastinata sine die.

Naturalmente i grandi gruppi finanziari e i governati ostentano fiducia: «Dopo la grande crisi che ci ha colpito nel 2009 e nel 2010, il PIL di Dubai crescerà del 4,6% nel 2011, dimostrando a tutto il mondo la solidità della nostra economia e l’abilità dei nostri governanti» sentenzia Hamad Buamin, direttore della Camera di Commercio e dell’Industria di Dubai.

Il suo ottimismo, però, crolla di fronte alle critiche di Saabir, un immigrato pakistano che abita nel quartiere di Deira, al di là del Creek: «Il PIL di Dubai aumenterà del 4,6% nel 2011? E’ naturale che sarà così, visto che il governo ha aumentato del 15% il costo dell’acqua e dell’elettricità, del 33% la benzina e del 40% i biglietti dei servizi pubblici! Come è sempre successo nella storia di Dubai, l’emirato si arricchisce a spese degli immigrati!».

Saabir ha il dente avvelenato nei confronti degli arabi. E non a torto.

Dei 2.300.000 abitanti di Dubai, solo il 17% sono cittadini dell’Emirato, il restante 83% sono immigrati, la maggioranza dei quali svolge lavori di manovalanza. Il 42% sono indiani, il 13% pakistani, l’8% bengalesi, il 2,5% filippini. Gli immigrati “di lusso”, europei e nordamericani, sono solo 1,2% della popolazione cittadina, ma, assieme agli arabi, detengono tutti i posti di comando della finanza e dell’economia.

Sono loro che vivono nella fantasmagorica Dubai, quella dei grattacieli, degli alberghi mozzafiato, dei centri commerciali più grandi al mondo.

Nell’albergo dove alloggio, il Movenpick Jumeirah, il personale si dice soddisfatto del trattamento: «La direzione e il management sono attenti alle nostre esigenze e la paga è estremamente alta, se comparata con quella dei nostri colleghi in Europa» spiega una ragazza della reception. La stessa soddisfazione la riscontro tra le cameriere della sala della colazione. Ma so che questa è solo una fortunata minoranza: la maggioranza degli altri stranieri vive in condizioni di semischiavitù. Orari di lavoro impossibili, stipendi inadeguati, ammortizzatori sociali inesistenti, case fatiscenti sono facili micce per proteste. Le più eclatanti sono state quelle che hanno interessato la convulsa costruzione del Burj Khalifa quando, nel marzo 2006 e nel novembre 2007, 2.500 lavoratori protestarono chiedendo condizioni di vita migliori e paghe più adeguate. Il Ministero del Lavoro rispose facendo intervenire la polizia e minacciando i manifestanti di deportazioni in massa nei loro paesi d’origine.

Samer Muscati, ricercatore dell’Human Rights Watch (HRW), mi descrive una situazione disastrosa: «I lavoratori stranieri impiegati nelle ditte edili, vengono pagati tra i 100 e i 250 euro al mese per lavorare 12 ore al giorno, 6 giorni alla settimana. Molto spesso le compagnie che assoldano gli operai sequestrano loro i passaporti per ricattarli, obbligandoli a lavorare senza alcuna condizione di sicurezza. I sindacati sono inesistenti; chi solo cerca di organizzare un’associazione che tuteli i diritti dei lavoratori, viene immediatamente espulso.».

Fuori dal Burj Khalifa, incontro Ravi, un lavoratore indiano. E’ la sua pausa pranzo e ci sediamo all’ombra dei luccicanti vetri che ricoprono la facciata del grattacielo:

«L’Arabtec, la ditta che ha costruito il Burj Khalifa, ci alloggiava in una cinquantina di campi lavoro sparsi attorno a Dubai, lontano dagli occhi dei turisti. A loro si deve far vedere il paradiso».

Vedere questa povertà assoluta, infatti, rischierebbe di smantellare il mito di Dubai come una sorta di Disneyland araba.

Eppure lo sceiccato di Dubai è stato il primo nella storia a denunciare la tratta degli schiavi nel 1820, quando con il governo di Sua Maestà siglò il "General Maritime Peace Treaty"

Con un gruppo della Caritas visito uno di questi quartieri e mi ritrovo in una fogna a cielo aperto: sporcizia ovunque, case fatiscenti dove in pochi metri quadrati alloggiano anche 20 persone in un’atmosfera di promiscuità assoluta. Le latrine sono perennemente intasate e d’estate, con 50 gradi, l’odore è nauseabondo; una sorta di cappa infernale che rende la vita impossibile. L’acqua, bene prezioso per una città come Dubai, viene spesso razionata per permettere il continuo rifornimento negli alberghi e nelle zone commerciali. Il solo sistema di condizionamento del Burj Khalifa equivale allo scioglimento di 12.500 tonnellate di ghiaccio; mantenere il green del campo da golf Tiger Woods richiede 18 milioni di litri di acqua al giorno, nel centro commerciale Mall of the Emirates c’è una pista da sci da 500 metri con impianti di risalita, uno chalet svizzero e una temperatura costantemente mantenuta tra i 4 e i 10 gradi sotto lo zero, mentre il grandioso e lussuoso complesso Atlantis, oltre ad avere un parco acquatico con 40 milioni di litri di acqua, vanta un hotel letteralmente immerso in un acquario, dove gli ospiti hanno l’impressione di dormire, mangiare e farsi la toilette tra squali, cernie, murene. Il paradiso descritto da Ravi. Ma non c’è posto per tutti in questo paradiso e Ravi, come molti altri suoi colleghi, che questo paradiso lo hanno costruito, sono costretti a vivere nell’inferno.

La condizione delle collaboratrici domestiche è ancora peggiore: segregate nelle lussuose ville dei loro padroni, sono spesso oggetto di abusi sessuali. Un sondaggio condotto dall’HRW nel gennaio 2010, ha evidenziato il terrore della componente femminile nel denunciare eventuali soprusi commessi a loro danno. Il 55% delle donne, infatti, ha ammesso che non contesterebbe alcun abuso sessuale per paura di ritorsioni delle famiglie ospitanti.  Del resto non c’è da stupirsi di tanta omertà, visto che la corte di giustizia è sottomessa alla famiglia reale, tanto da assolvere dall’accusa di tortura Sheikh Issa bin Zayed al Nahyan, figlio del precedente presidente degli Emirati, nonostante un video lo inchiodasse. Il motivo dell’assoluzione? Lo sceicco sarebbe stato vittima di una cospirazione.

Non tutti gli arabi degli Emirati sono contenti di questa evoluzione sociale e lo scontento si esprime per lo più attraverso la forma d’arte più evoluta in una società dalle origini tribali, dove la tradizione orale e la memoria si sostituiscono alla scrittura: la poesia. Rubaia bin Yaqoot è il poeta nabati più critico verso la nuova società. La nostalgia verso la tradizione è evidente nei suoi versi:

“Le hanno insegnato a ballare e a cantare

e hanno fatto di una ragazza un’artista. (…)

E il ragazzo quando cammina ancheggiando

i suoi capelli scendono fino alle spalle,

alcolizzato,

dorme con la bottiglia sulle sue labbra”

Mi tornano in mente questi versi quando passeggio lungo la Jumeirah Beach, la spiaggia pubblica che sorge all’ombra del Burj Al Arab, l’hotel più lussuoso del mondo, dove il costo di una stanza parte dai mille dollari a notte per raggiungere la ragguardevole cifra di 28.000.

A differenza degli altri paesi arabi, qui i due sessi possono bagnarsi nelle stesse acque e prendere il sole in bikini. «Ma questo accade solo a Dubai» mi avverte mons. Paul Hinder, vicario apostolico d’Arabia; «Ad Abu Dhabi, ad esempio, le spiagge sono ancora separate secondo l’usanza islamica».

A Dubai incontro un islam completamente differente da quello conosciuto in altri paesi. Qui tradizione e modernità hanno saputo armonizzarsi tra loro sino a convivere e a trasformarsi a vicenda.

«Questo è il vero islam» mi dice Nasif Kayed, direttore dello Sheikh Mohammed Centre for Cultural Understanding (SMCCU). Una sentenza che si arrogano il diritto di affermare tutte le componenti musulmane del mondo: dai taleban agli ayatollah, dagli hezbollah ai Fratelli Musulmani. Qui a Dubai, però, è vero che l’islam che si respira è assai differente da quello di altre culture musulmane. Non potrebbe essere altrimenti, in una città che ha fatto della globalizzazione spinta, la sua bandiera. Una islamizzazione radicale avrebbe potuto allontanare imprenditori e finanziatori. Tutti sanno che Dubai è sempre stata la lavanderia dei soldi destinati alla jihad. La famiglia bin Laden ha sempre avuto un rapporto privilegiato con la famiglia regnante e lo stesso Osama bin Laden, negli anni passati è stato ricoverato negli attrezzatissimi ospedali dell’Emirato. Il governo degli EAU, del resto, è stato l’unico al mondo, assieme a quello del Pakistan e Arabia Saudita, a riconoscere l’Afghanistan dei Taleban, ma è anche uno dei paesi arabi che mantiene strette relazioni politiche e militari con gli Stati Uniti sino a garantire alle forze statunitensi due basi militari sul suo territorio.

Anche se la costituzione garantisce all’islam il ruolo di religione di stato, a Dubai esistono chiese cristiane, templi hinduisti e sikh, mentre gli hotel internazionali possono servire alcolici e carne di maiale.

Ma se l’islam “di stato” può essere tollerante, molti immigrati non accettano questo “inquinamento” di valori: «Dubai si è venduto all’Occidente ed ha perso la via indicata dal profeta» mi spiega Khurram, un pakistano di Quetta da cinque mesi arrivato a Dubai; «Noi musulmani non possiamo neppure andare in spiaggia senza vedere donne nude o uomini che bevono birra o alcolici. Dubai non è l’islam e non è un luogo dove vorrei vivere».

Gli fa eco Shamil, anche lui pakistano: «L’islam predica l’unità dei fedeli per combattere gli infedeli, ma qui a Dubai sembra che i nostri fratelli si siano alleati con gli infedeli per combattere i fedeli. Una jihad al contrario.»

A Khurram e Shamil risponde senza mezzi termini Nasif Kayed:

«Se la pensano così, allora perché vanno in spiaggia? Se non vuoi vedere questa “promiscuità”, se non vuoi vedere gente bere alcolici, allora non andare in spiaggia, non andare nei bar, perché sai benissimo che se vai in questi luoghi, troverai queste situazioni.»

La sfida religiosa di Dubai è proprio quella di restare in equilibrio su un filo sospeso nel baratro della rivolta religiosa. Da una parte il governo di Al-Maktoum deve soddisfare le aperture richieste dall’Occidente, dall’altro non può negare a chi mantiene il “paradiso” la propria religiosità. E allora ecco che una richiesta per una scuola cattolica, rimane ferma da quattro anni sulla scrivania di un ministero.

Il motto del SMCCU è “Open doors. Open minds”, aprire le porte, aprire le menti, ma è obiettivamente difficile applicare questa massima ad una città che fa della finanza e della crescita economica l’unico senso della sua esistenza.

Ma, forse, è proprio questa sfida che Sheikh Mohammed bin Rashid al Maktoum, principe di Dubai, vuole vincere, come ha scritto in una sua poesia:

“Le notti buie e i difficili giorni;

li accogliamo come ci vengono dati e non abbiamo timore del futuro.

Camminiamo lungo un sentiero non ancora battuto

e se la via è difficile, mi diverto maggiormente”

Copyright © Piergiorgio Pescali

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