Alla vigila di Natale del
2000 Vittorio Messori, dalle pagine del Corriere della Sera, lanciò una provocazione:
traslare la festa della Natività dal 25 dicembre al 15 agosto per ritrovare una
ricorrenza “non solo senza eccessi commerciali, ma pure
senza renne, abeti, babbi natale…”. La sfida di Messori partiva dalla
considerazione che il giorno più suggestivo (sebbene non il più importante) del
calendario cristiano, si era trasformato in un appuntamento commerciale e
consumistico, dove la religiosità faceva solo da tenue sfondo al palcoscenico
dell’apparire e dell’avere. Per la verità, il pungolo non era cosa nuova:
undici anni prima, nel 1989, un artista newyorkese, Robert Cenedella, aveva
suscitato un intenso dibattito con la sua opera intitolata Santa Claus, dove un Babbo Natale agonizzava su un crocifisso
piantato su un terreno cosparso di pacchi regalo. Lungi dal voler essere
irriverente verso i valori cristiani, Cenedella afferma che il suo quadro «tende a mostrare come Santa Claus ha
sostituito Gesù Cristo sino a prenderne il posto come principale figura del
Natale». In effetti, le luminarie multicolori che addobbano i grandi
magazzini e le strade delle nostre città durante le feste natalizie, rischiano
di offuscare il vero significato della ricorrenza religiosa. Non è certo un
caso che su internet, ed in particolare negli Stati Uniti, si stanno
moltiplicando i siti che esaltano la figura di Gesù rispetto quella di Babbo
Natale. Spesso, ma qui parliamo di scuole o sette cristiane radicali, Santa
Claus viene demonizzato sino ad assimilarlo ad un anticristo o addirittura a Satana.
Tutta
questa acredine ideologica, però, non permette di osservare l’interessante
evoluzione che, lungo l’arco di diciassette secoli, ha portato un umile vescovo
della costa turca, a trasformarsi nel moderno rubicondo omone dalla barba
bianca che la notte del 24 dicembre passa di casa in casa a lasciare regali.
La storia
di Babbo Natale ha infatti inizio nel 260 d.C. a Patara, una città sulla costa
meridionale dell’odierna Turchia la cui popolazione era di cultura e lingua
greca. Qui, da una famiglia cristiana, nacque il futuro san Nicola. L’impero
romano, dopo la sconfitta di Valeriano contro la Persia, versava in grave crisi
e alla sua guida si succedevano, uno dopo l’altro, imperatori inetti e poco
rappresentativi. Nicola crebbe in questo clima di incertezza politica e di
insicurezza economica. E proprio la miseria fa da sfondo alla leggenda che lo ha
poi reso celebre. Un padre di famiglia si struggeva per maritare le proprie tre
figlie, ma la povertà in cui versava non consentiva di dare loro una dote
sufficiente. Giunse così alla decisione di farle prostituire. Una volta
saputolo, Nicola decise di aiutare la famiglia donando, in via del tutto
anonima, le somme di denaro sufficienti per combinare i matrimoni delle tre
grazie. Tra le tante versioni pervenuteci, una narra che, dopo aver lanciato per due volte il
sacchetto contenente le monete dalla finestra, per non farsi scoprire Nicola si
arrampicò sul tetto lasciando cadere il terzo sacchetto dal camino. Un chiaro riferimento
allegorico al tradizionale percorso seguito da Babbo Natale per lasciare i
pacchi dono sotto l’albero. La storia ha comunque dato origine all’iconografia
che distingue san Nicola da ogni altro santo cristiano: il virtuoso, difatti
viene sempre raffigurato con tre sfere d’oro ai suoi piedi o tra le mani. A
Bari, dove il santo è venerato come patrono cittadino, il culto di san Nicola
ha portato all’istituzione del maritaggio,
mantenuta in vita sino al 1984, grazie alla quale ogni anno venivano
sorteggiate alcune ragazze orfane di padre e povere, a cui veniva assegnata una
dote per contrarre matrimonio. Anche questa pratica ha avuto un chiaro
riferimento alla storia delle tre sorelle aiutate dal patrono barese.
Ma altri
racconti narrano innumerevoli meriti ascrivibili a san Nicola, grazie a cui
marinai, bambini, ragazze nubili, ladri, prigionieri, macellai si pongono sotto
il suo patronato. Michele Archimandrita, monaco dell’VIII secolo, si spinge
sino a dipingere un Nicola infante già destinato alla santità, scrivendo che il
bambino rifiutava di succhiare il latte dal seno materno più di una volta al mercoledì
e al venerdì, giorni dedicati al digiuno settimanale. Il confine tra realtà e
fantasia torna a farsi più evidente dopo la nomina a vescovo della città di
Mira, un importante porto della Licia, avvenuta nel 295 d.C. Il vescovado di
Nicola si protrasse nel periodo delle persecuzioni di Diocleziano, per poi
prolungarsi oltre il Concilio di Nicea, a cui partecipò schierandosi dalla
parte di Atanasio nella disputa con Ario sulla natura umana e divina di Cristo.
L’ennesima leggenda lo vede impegnato a spiegare la Trinità agli scettici
mostrando loro un mattone, formato da terra, acqua e fuoco quando dal laterizio
si sprigiona una fiammella, cadono delle gocce d’acqua e nelle mani di Nicola
rimane solo terra. La spiegazione di un dogma basilare per la fede cattolica, definito
per la prima volta proprio durante il Concilio di Nicea, vuole indicare
l’elevata statura morale e teologica che i posteri vollero dare a san Nicola.
La morte del vescovo di Mira non fece altro che rafforzare la fede riposta in
lui da parte della popolazione dell’Asia Minore. Ma sino al X secolo, la fama
di san Nicola rimase relegata nella regione medio orientale. Fu Teofano, figlia
di Costantino Sclero, che nel 972 “esportò” la popolarità del santo in Europa.
Promessa sposa al diciassettenne Ottone II, il 14 giugno 972 la principessa
giunse a Roma portando con sé l’effige del suo patrono, san Nicola, appunto. Il
riscontro dato dai fedeli fu immediato: in pochi anni la venerazione si espanse
fino al nordeuropea, tanto che nell’XI secolo Mira divenne uno dei principali
centri di pellegrinaggio di tutta la cristianità. I credenti arrivavano fin qui
per pregare, ma anche per portare a casa l’olio sacro, un liquido che si diceva
trasudasse dalla tomba del santo. L’espansione musulmana, però, raggiunse anche
la città preceduta da un panico incontrollato, che indusse alla fuga i
cittadini lasciando incustodite le spoglie del loro patrono. Quale migliore
occasione per una città come Bari, decaduta politicamente dopo la conquista
normanna, per riacquistare il prestigio che aveva sotto l’impero bizantino? E
così, nel 1087, 62 marinai baresi finanziati dal nuovo governo cittadino e con
la benedizione di padre Elia, abate del monastero benedettino di Bari,
sbarcarono a Mira trafugando, senza neppure combattere, le spoglie di san
Nicola per trasportarle oltremare. Con l’arrivo delle reliquie, la città
pugliese riuscì a riemergere dal torpore religioso e, grazie al nuovo flusso di
pellegrini, l’economia conobbe un nuovo sviluppo. La devozione data a san Nicola
fu talmente profonda che fino al XVI secolo le famiglie discendenti dai 62
marinai che trasportarono la tomba a Bari, avevano diritto ad una percentuale
sulle offerte che i fedeli donavano in occasione delle due feste patronali del
9 maggio (giorno in cui arrivarono le spoglie del santo a Bari) e del 6
dicembre (giorno del calendario liturgico dedicato a san Nicola).
Ma Bari non
avrebbe (il condizionale qui è d’obbligo) l’intero scheletro di san Nicola: la
riesumazione delle ossa e lo studio effettuato il 5 maggio 1953 da un
professore universitario, Luigi Martino, conclusero che lo scheletro era
incompleto, dando così credito alla tesi “veneziana” secondo cui i marinai
baresi, nella fretta di trasferire le ossa di san Nicola sulla loro nave,
abbandonarono alcune reliquie in seguito ritrovate dai veneziani e da questi
portati nella Serenissima. La contesa tra Bari e Venezia continua a protrarsi
ancora oggi, ma sembra oramai assodato che nella chiesa di San Nicolò al Lido
giacciano i resti delle spoglie mancanti a Bari. «Non vi è alcun dubbio su questo» afferma don Giancarlo Iannotta,
parroco della chiesa veneziana, che continua: «Nel 1992 le ossa della tomba custodita a San Nicolò vennero esaminate
ed ogni reperto catalogato e confrontato con i resti delle ossa baresi. Le due
serie combaciavano perfettamente tra loro.»
E se Bari e
Venezia continuano a disputare il privilegio di custodire i frammenti sacri,
nel nord Europa, dove il culto di san Nicola si era radicato grazie alla
principessa Teofano, la Riforma protestante epurò la festa del santo dal
calendario liturgico. Le famiglie, specialmente in Germania e nelle Fiandre,
continuarono però a ricordarne la ricorrenza, tanto da elevare san Nicola patrono
di Amsterdam. E’ proprio verso il XVI secolo che, nelle regioni più toccate dal
conflitto religioso, cominciò a diffondersi l’usanza di portare doni ai bambini
in occasione della festa di San Nicola. E’ il primo passo verso la
trasformazione del santo in Babbo Natale.
Una prima
rappresentazione di quello che diventerà Santa Claus e Babbo Natale, la
troviamo nel cattolico Tirolo, dove la festa di San Nicola, preceduta dalla
notte dei Krampus, i diavoli che si presentano sotto forma di enormi caproni
con catene, campanacci e fruste, è la celebrazione natalizia più amata dalle
famiglie.
Krampus
contro San Nicola, il male contro il bene.
«I Krampus rappresentano il male, l’oscurità
perché dove c’è il bene, per contrapposizione, ci deve essere anche il male» mi spiega Francesca,
direttrice dell’Ufficio Turistico di Villabassa ed esperta di tradizioni
tirolesi.
Sarà Nicola,
portato su un carro, a sconfiggere i diavoli e ad allontanarli dalla comunità.
La vittoria del vescovo porterà anche i tradizionali doni, un tempo cibarie
esotiche troppo care per essere comprate regolarmente, oggi caramelle,
dolciumi, giocattoli.
«Il collegamento tra Krampus e san Nicola è il
modo in cui il cristianesimo è riuscito ad assorbire feste che un tempo erano
pagane» continua Francesca.
Poco
distante da Villabassa sorge l’abbazia di Novacella, dove l’abate Georg
Untergassmair mi spiega che «San Nicola è
il santo più amato dai tirolesi perché consegna doni senza pretendere nulla in
cambio. E’ l’amore puro, quello che si dona senza aspettarsi nulla, neppure
riconoscenza».
Il timore è
che la devozione verso San Nicola offuschi il vero significato del Natale
cristiano, la venuta di Cristo.
«In realtà» aggiunge Georg
Untergassmair, «Gesù rimane comunque al
centro della fede di ogni cristiano. Le faccio un paio di esempi: quelli che
voi generalmente chiamate mercatini di Natale, da noi si chiamano
Christkindmarkt, mercatini di Gesù Bambino e noi non abbiamo l’albero di
Natale, ma l’albero di Cristo. Direi che il momento più importante del periodo
natalizio è il 24 dicembre, ma posso anche affermare che la festa di San Nicola
è la vigilia della vigilia di Natale».
Ma
l’evoluzione vera e propria che ha portato San Nicola a trasformarsi in Santa
Claus non è avvenuta in Europa, bensì in America quando, nel XVII secolo,
alcuni cittadini di Amsterdam sbarcarono sulle coste orientali del continente
fondando New Amsterdam e portando con essi la devozione verso il loro patrono,
San Nicola, chiamato Sinter Klaas. All’inizio sia il villaggio che Sinter Klaas
sembrava dovessero soccombere alle difficoltà. In particolare, il culto verso
San Nicola era osteggiato dai puritani, i quali vietavano a volte di
pronunciarne anche il solo nome. La devozione e la caparbietà dei coloni
olandesi, però, ebbe la meglio e sia il gruppo di casupole, che Sinter Klaas
avrebbero avuto un futuro brillante trasformandosi rispettivamente in New York
e in Santa Claus. Santa Claus altro non è che la storpiatura data nel 1773 da
alcuni giornali americani, di Sinter Klaas. La definitiva consacrazione di
Santa Claus avviene però il 24 dicembre 1822 quando un dentista con il pallino
della poesia, Clement Clark Moore, scrive una filastrocca per i suoi bambini: A Visit from St Nicholas, nota anche
come The Night Before Christmas. In
questo lunghissimo poema solo nel nome Saint Nicholas, si riscontrano le
caratteristiche cristiane del protagonista. Per il resto la trasformazione
americanizzata che porterà all’iconografia attuale di Santa Claus è già in
atto: Babbo Natale viaggia per la prima volta su una slitta trainata da otto
renne (Rudolph, la renna con il naso rosso, verrà aggiunta solo nel 1939 da
Robert L. May), “scende dal camino (…)
vestito di pelliccia da capo a piedi (…) con un gran sacco sulle spalle pieno
di giocattoli, (ha) le guance rubiconde, il naso a ciliegia (…) la barba bianca
come neve”.
Ma Clark
Moore ha solo descritto sulla carta il suo Santa Claus; chi, invece, lo
illustrerà per la prima volta in fattezze i cui canoni risulteranno fissate
anche per i successivi illustratori, è Thomas Nast che nel 1863 disegna per l’Harper’s Weekly un Santa Claus con il
pancione e barba bianca che indossa un vestito a stelle a strisce. E’ un Babbo
Natale politico perché viene mostrato mentre discute con i soldati dell’Unione
in piena guerra di Secessione. In barba alla carità cristiana di cui dovrebbe
essere il rappresentante, il Santa Claus di Nast ha in mano una marionetta che
altri non è che Jefferson Davis, presidente degli Stati Confederati d’America.
Il burattino è appeso ad una fune attorno al collo, un’azione inequivocabile. Fu
lo stesso Abramo Lincoln che chiese a Nast di disegnare un Santa Claus
“partigiano” per demoralizzare i soldati confederali sudisti inaugurando così
la guerra psicologica. Bisognerà però aspettare sino al 19 dicembre 1915 perché
Santa Claus venga “assunto” come testimonial di un prodotto commerciale. Fu
l’industria delle bevande industriali analcoliche a sfruttare Babbo Natale. Ma,
a differenza di quanto si pensi, non fu la Coca Cola, bensì la White Rock,
produttrice di acque minerali a utilizzare un Santa Claus barbuto con la giubba
rossa bordata di un pellicciotto bianco che, tra il 1919 e il 1925, fece la sua
comparsa sulle riviste americane più prestigiose tra cui Live Magazine. La Coca
Cola riprese l’idea della White Rock assoldando il disegnatore più famoso del
momento: Haddon Hubbard Sundblom che, dal 1931 al 1964, disegnò più di 40 disegni
pubblicitari con Santa Claus ispirandosi, per immortalarne il volto, ad un suo
vicino di casa: Lou Prentiss. “Riassumeva
tutte le fattezze e lo spirito di Santa Claus. Le rughe che aveva sul volto
erano rughe felici” ebbe a spiegare Sundblom.
“Il Santa
Claus della Coca Cola personifica lo spirito della vacanza ed ha aiutato a
modellare l’immagine di santa Claus in tutto il mondo” ha detto nel 2006, in occasione del 75° anniversario
della prima vignetta di Sundblom, Phil
Mooney, direttore degli Archivi della Coca-Cola.
Ma se la Coca Cola ha internazionalizzato Santa Claus,
la Finlandia è riuscita a monopolizzare l’attenzione dei bambini di tutto il
mondo creando attorno a lui una vero e proprio business turistico. A Rovaniemi,
infatti, sorge quello che è da tutti conosciuto come il Villaggio di Babbo
Natale. Gli ingredienti ci sono tutti: tanta neve, suggestione, l’aurora
boreale, uno scenario mozzafiato, l’atmosfera naturale a cui è stata
intelligentemente aggiunto un tocco di fantasia “artificiale”. E così il “vero”
Babbo Natale vive tutto l’anno qui, seduto nel suo ufficio dove arrivano
migliaia di lettere da tutto il mondo (la terza nazione come numero è l’Italia)
e accogliendo i bambini elettrizzati nell’incontrare il loro idolo. «Il lavoro è duro, ma sapere che migliaia di
bambini torneranno a casa con un ricordo che rimarrà impresso per tutto il
resto della loro vita, mi appaga di tutta la fatica» afferma Babbo Natale.
Il Santa Claus della Coca Cola e di Rovaniemi sono il
prodotto della modernizzazione e della secolarizzazione di una società rivolta
al futuro, ma che riconosce nel proprio passato le radici su cui si fonda il
proprio essere.
Joulupukki,
Noel Baba, le Père Noel, Nikolaus, Santa Claus, Babbo Natale… comunque lo si
chiami è sempre a lui che ci si riferisce: San Nicola vescovo di Mira.
© Piergiorgio Pescali
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