Non dimenticare la storia


Als die Nazis die Kommunisten holten, habe ich geschwiegen;
ich war ja kein Kommunist.
Als sie die Sozialdemokraten einsperrten, habe ich geschwiegen;

ich war ja kein Sozialdemokrat.
Als sie die Gewerkschafter holten, habe ich nicht protestiert;

ich war ja kein Gewerkschafter.
Als sie die Juden holten, habe ich nicht protestiert;

ich war ja kein Jude.
Als sie mich holten,
gab es keinen mehr, der protestierte.


Quando i nazisti vennero per i comunisti, io restai in silenzio;
non ero comunista.
Quando rinchiusero i socialdemocratici, rimasi in silenzio;
non ero un socialdemocratico.
Quando vennero per i sindacalisti, io non feci sentire la mia voce;
non ero un sindacalista.
Quando vennero per gli ebrei, non protestai;
non ero un ebreo.
Quando vennero per me, non era più rimasto nessuno che potesse far sentire la mia voce.

(Emil Gustav Friedrich Martin Niemöller; Lippstadt, 14 gennaio 1892 – Wiesbaden, 6 marzo 1984)



S-21 - Nella prigione di Pol Pot

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S-21; un romanzo storico, una narrazione viva e potente che porta il lettore in una struttura detentiva istituita dal regime degli Khmer Rossi, una prigione da cui pochi sono tornati, seppur segnati nel corpo e nello spirito, vivi.

IL CUSTODE DI TERRA SANTA - un colloquio con padre Pierbattista Pizzaballa

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FESTIVAL FRANCESCANO 2014 - Rimini, piazza Tre Martiri,SABATO 27 SETTEMBRE - ORE 15.00 Presentazione del libro Il Custode di Terra Santa

INDOCINA - Un libro, una saggio, una guida per chi vuole approfondire

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Norvegia: evitare altre Utoya


Furuset è un quartiere nella periferia orientale di Oslo. Il sabato e la domenica gli abitanti della capitale vi arrivano per visitare l’Ikea, ma nel resto della settimana nell’area risiedono immigrati africani, pakistani, medio orientali che, dalla fine degli anni Novanta, hanno superato di numero i norvegesi. Qui, accanto ad una chiesa luterana, sorge la più grande moschea del paese, nella squadra di hockey sul ghiaccio l’attaccante  di punta si chiama Shayan Zahedi, i negozi di macelleria vendono carne halal e nelle scuole i bambini norvegesi sono la minoranza. Certamente Furuset non è la Norvegia del futuro, ma è un buon banco di prova per testare i cambiamenti di una società che, in soli 15 anni, ha visto raddoppiare il numero di stranieri. «Se fino alla metà degli anni Novanta si guardava all’immigrato con curiosità, oggi esso rappresenta l’11% della popolazione. Alla curiosità si è sostituito il confronto.» mi dice Anne Haagensen, antropologa all’Università di Oslo. Dei 550.000 immigrati (su una popolazione totale di 4,7 milioni di abitanti), il 42% ha cittadinanza norvegese e 200.000 sono musulmani. La Norvegia non è mai stata meta di immigrazione e questo ha permesso alla società di costruirsi, nel corso dei secoli, un tessuto culturale uniforme e ben distinto dalle altre nazioni scandinave. «Un cambiamento così repentino porta comunque conseguenze, e affrontare la multiculturalità è una sfida a cui il modello norvegese dovrà far fronte nei prossimi anni» conclude Haagensen. Tra le conseguenze, naturalmente, c’è anche Anders Breivik, l’attentatore che il 22 luglio, dopo aver fatto saltare un’autobomba di fronte all’ufficio del primo ministro, ha ammazzato a sangue freddo 77 persone nell’isola di Utoya. Ad armarlo è stata una miscela micidiale di frustrazione nei confronti di una classe politica considerata traditrice e passiva nei confronti dell’islam e di autoimmolazione al martirio. Nella sua lucida quanto atroce idea di difesa dell’Europa, il dito di Breivik ha sparato convulsamente sia contro i marxisti che contro papa Benedetto XVI, il papa traditore, “codardo, incompetente, corrotto e illegittimo” che ha “abbandonato la cristianità”.   «La tragedia ci ha scossi non tanto emotivamente, quanto socialmente» spiega Erikka Oyhovden, maestra di una scuola primaria a Bergen. «Ci siamo accorti che abbiamo aperto le porte senza essere pronti al multiculturalismo. Ora dobbiamo domandarci come integrare gli immigrati nel nostro sistema». Per spiegarsi meglio, Erikka propone come esempio la sua classe, dove su 30 bambini, 10 sono figli di immigrati di prima generazione. «Hanno poca dimestichezza con la lingua norvegese ed ho quindi dovuto ridimensionare gli standard scolastici e gli obiettivi fissati all’inizio dell’anno. Questo ha generato una serie di proteste da parte dei genitori norvegesi, alcuni dei quali hanno spostato i propri figli in altre scuole». La disponibilità del governo di Oslo ad accogliere in particolar modo rifugiati politici, ha, in un certo senso, ampliato i problemi: «Chi scappa da una situazione di guerra o di dittatura non ha avuto la possibilità di formarsi culturalmente e, il più delle volte, porta con sé problemi psicologici difficili da recuperare almeno fino alla seconda o terza generazione» afferma Dag Nystrom, dell’Associazione Psicologi Norvegesi. Il dibattito che si è aperto in questi giorni verte proprio su come integrare questa fetta di popolazione non nata in Norvegia, in una società molto coesa e con una lingua così difficile da assimilare. «E’ difficile prospettare come la società norvegese cambierà a fronte di ciò che è successo» ammette Tore Bjorgo, esperto di terrorismo internazionale al Norwegian Istitute of International Affairs, «ma in Norvegia abbiamo la virtù di mantenere la mente fredda; il che ci ha aiutato a non creare un clima di panico e isteria, permettendo al nostro primo ministro, immediatamente poche ore dopo gli attentati, di ribattere che in Norvegia ci sarà più apertura e più democrazia.»Certo, comunque, che ci saranno partiti e movimenti che dovranno rivedere certe loro posizioni, primo fra tutti il Partito del Progresso (PdP), in cui Breivik ha militato sino al 2006, per poi uscirne perché considerato troppo moderato. La propaganda anti immigrazione e antimusulmana del PdP, ha creato l’humus di molte campagne razziste e nazionaliste in Norvegia e se certamente il partito non è responsabile delle azioni di Breivik, non può negare le sua estraneità nell’aver iniettato una buona dose di xenofobia al suo elettorato. «Nel partito siamo tutti imbarazzati e disgustati che Breivik abbia fatto parte del movimento fino al 2006. Non sappiamo perché ne sia entrato, ma è chiaro perché ne sia uscito» spiega Siv Jensen, leader del Partito, impegnata in un tentativo di recuperare consensi per le elezioni locali previste nel prossimo settembre. Ma non sarà solo la classe politica a dover fare un atto di coscienza sulle proprie azioni; anche i norvegesi sono chiamati a dare prova del loro operato. Parallelamente alla crescita della presenza degli immigrati nella nazione, i consensi al Partito del Progresso con cresciuti in modo esponenziale: se nel 1993 solo 6 elettori su 100 davano il loro voto al PdP, nel 2009 erano ben 23. L’incremento maggiore lo si è registrato nelle regioni settentrionali, dove la Janteloven, la legge che scoraggia l’iniziativa individuale a favore del collettivismo, e la cultura norvegese sono più radicate. Nel Finnmark, ad esempio gli ultraconservatori sono passati dal 2% nel 1993 al 22% nel 2009, mentre nel Troms hanno registrato un incremento dal 4 al 25%. «Non sappiamo cosa scaturirà da questa tragedia» dichiara Thomas Hegghammer, esperto di terrorismo alla Norwegian Defense Research Estabilishment, «E’ probabile che il Partito Laburista acquisterà voti nelle prossime consultazioni, ma a lungo periodo penso si assisterà a ciò che è successo negli altri paesi scandinavi: i partiti conservatori costringeranno i socialdemocratici a spostarsi più a destra.». Ma, come ha detto il primo ministro Jens Stoltenberg “ci sarà una Norvegia prima e una Norvegia dopo il 22 luglio 2011. Sta comunque a noi a decidere come sarà la Norvegia”.

© Piergiorgio Pescali

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