Furuset è
un quartiere nella periferia orientale di Oslo. Il sabato e la domenica gli
abitanti della capitale vi arrivano per visitare l’Ikea, ma nel resto della
settimana nell’area risiedono immigrati africani, pakistani, medio orientali
che, dalla fine degli anni Novanta, hanno superato di numero i norvegesi. Qui,
accanto ad una chiesa luterana, sorge la più grande moschea del paese, nella squadra
di hockey sul ghiaccio l’attaccante di
punta si chiama Shayan Zahedi, i negozi di macelleria vendono carne halal e nelle scuole i bambini norvegesi
sono la minoranza. Certamente Furuset non è la Norvegia del futuro, ma è un
buon banco di prova per testare i cambiamenti di una società che, in soli 15
anni, ha visto raddoppiare il numero di stranieri. «Se fino alla metà degli anni Novanta si guardava all’immigrato con
curiosità, oggi esso rappresenta l’11% della popolazione. Alla curiosità si è
sostituito il confronto.» mi dice Anne Haagensen, antropologa
all’Università di Oslo. Dei 550.000 immigrati (su una popolazione totale di 4,7
milioni di abitanti), il 42% ha cittadinanza norvegese e 200.000 sono
musulmani. La Norvegia non è mai stata meta di immigrazione e questo ha
permesso alla società di costruirsi, nel corso dei secoli, un tessuto culturale
uniforme e ben distinto dalle altre nazioni scandinave. «Un cambiamento così repentino porta comunque conseguenze, e
affrontare la multiculturalità è una sfida a cui il modello norvegese dovrà far
fronte nei prossimi anni» conclude Haagensen. Tra le conseguenze,
naturalmente, c’è anche Anders Breivik, l’attentatore che il 22 luglio, dopo
aver fatto saltare un’autobomba di fronte all’ufficio del primo ministro, ha
ammazzato a sangue freddo 77 persone nell’isola di Utoya. Ad armarlo è stata
una miscela micidiale di frustrazione nei confronti di una classe politica
considerata traditrice e passiva nei confronti dell’islam e di autoimmolazione
al martirio. Nella sua lucida quanto atroce idea di difesa dell’Europa, il dito
di Breivik ha sparato convulsamente sia contro i marxisti che contro papa
Benedetto XVI, il papa traditore, “codardo,
incompetente, corrotto e illegittimo” che ha “abbandonato la cristianità”. «La tragedia ci ha scossi non tanto
emotivamente, quanto socialmente» spiega Erikka Oyhovden, maestra di una
scuola primaria a Bergen. «Ci siamo
accorti che abbiamo aperto le porte senza essere pronti al multiculturalismo.
Ora dobbiamo domandarci come integrare gli immigrati nel nostro sistema».
Per spiegarsi meglio, Erikka propone come esempio la sua classe, dove su 30
bambini, 10 sono figli di immigrati di prima generazione. «Hanno poca dimestichezza con la lingua norvegese ed ho quindi dovuto
ridimensionare gli standard scolastici e gli obiettivi fissati all’inizio
dell’anno. Questo ha generato una serie di proteste da parte dei genitori
norvegesi, alcuni dei quali hanno spostato i propri figli in altre scuole».
La disponibilità del governo di Oslo ad accogliere in particolar modo rifugiati
politici, ha, in un certo senso, ampliato i problemi: «Chi scappa da una situazione di guerra o di dittatura non ha avuto la
possibilità di formarsi culturalmente e, il più delle volte, porta con sé
problemi psicologici difficili da recuperare almeno fino alla seconda o terza
generazione» afferma Dag Nystrom, dell’Associazione Psicologi Norvegesi. Il
dibattito che si è aperto in questi giorni verte proprio su come integrare questa
fetta di popolazione non nata in Norvegia, in una società molto coesa e con una
lingua così difficile da assimilare. «E’
difficile prospettare come la società norvegese cambierà a fronte di ciò che è
successo» ammette Tore Bjorgo, esperto di terrorismo internazionale al
Norwegian Istitute of International Affairs, «ma in Norvegia abbiamo la virtù di mantenere la mente fredda; il che
ci ha aiutato a non creare un clima di panico e isteria, permettendo al nostro
primo ministro, immediatamente poche ore dopo gli attentati, di ribattere che
in Norvegia ci sarà più apertura e più democrazia.»Certo, comunque, che ci saranno partiti e
movimenti che dovranno rivedere certe loro posizioni, primo fra tutti il
Partito del Progresso (PdP), in cui Breivik ha militato sino al 2006, per poi
uscirne perché considerato troppo moderato. La propaganda anti immigrazione e
antimusulmana del PdP, ha creato l’humus di molte campagne razziste e
nazionaliste in Norvegia e se certamente il partito non è responsabile delle
azioni di Breivik, non può negare le sua estraneità nell’aver iniettato una
buona dose di xenofobia al suo elettorato. «Nel
partito siamo tutti imbarazzati e disgustati che Breivik abbia fatto parte del
movimento fino al 2006. Non sappiamo perché ne sia entrato, ma è chiaro perché
ne sia uscito» spiega Siv Jensen, leader del Partito, impegnata in un
tentativo di recuperare consensi per le elezioni locali previste nel prossimo
settembre. Ma non sarà solo la classe politica a dover fare un atto di
coscienza sulle proprie azioni; anche i norvegesi sono chiamati a dare prova
del loro operato. Parallelamente alla crescita della presenza degli immigrati
nella nazione, i consensi al Partito del Progresso con cresciuti in modo
esponenziale: se nel 1993 solo 6 elettori su 100 davano il loro voto al PdP,
nel 2009 erano ben 23. L’incremento maggiore lo si è registrato nelle regioni
settentrionali, dove la Janteloven, la legge che scoraggia l’iniziativa
individuale a favore del collettivismo, e la cultura norvegese sono più
radicate. Nel Finnmark, ad esempio gli ultraconservatori sono passati dal 2%
nel 1993 al 22% nel 2009, mentre nel Troms hanno registrato un incremento dal 4
al 25%. «Non sappiamo cosa scaturirà da
questa tragedia» dichiara Thomas Hegghammer, esperto di terrorismo alla
Norwegian Defense Research Estabilishment, «E’
probabile che il Partito Laburista acquisterà voti nelle prossime
consultazioni, ma a lungo periodo penso si assisterà a ciò che è successo negli
altri paesi scandinavi: i partiti conservatori costringeranno i socialdemocratici
a spostarsi più a destra.». Ma, come ha detto il primo ministro Jens
Stoltenberg “ci sarà una Norvegia prima e
una Norvegia dopo il 22 luglio 2011. Sta comunque a noi a decidere come sarà la
Norvegia”.
© Piergiorgio Pescali
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