Ora che i Giapponesi hanno deciso di cambiare pagina punendo l’immobilismo politico del Partito Liberal Democratico, il Partito Democratico dovrà lavorare affinché le promesse fatte (tante e impegnative) si tramutino in fatti. I campi sotto osservazione sono essenzialmente tre: la riforma politico-amministrativa, il sistema sociale e l’economia. Naoto Kan, Presidente del PDG, ha già in mente un sistema che ricalca quello britannico per ridare supremazia della politica sulla burocrazia. Dal punto di vista sociale, invece, si guarda al modello scandinavo per alleviare le due principali piaghe che affliggono il Giappone: l’invecchiamento demografico e la riforma scolastica. Nel campo economico i giovani sono preoccupati per la forte disoccupazione (5,7%), mentre il sistema pensionistico, accanto a quello della sanità, sono temi maggiormente sentiti dalle generazioni più anziane. Il costo del programma democratico è stato valutato tra i 17 e i 25 miliardi di yen all’anno (il PIL giapponese è di 510 miliardi di yen). I fondi necessari per trasformare le intenzioni in azioni concrete dovrebbero essere attinti da un drastico ridimensionamento delle opere pubbliche e dell’apparato statale, ma sono in molti a dubitare che questo potrà essere messo in pratica. Secondo molti analisti economici, attuare questi punti del programma significa aumentare la disoccupazione e fermare la macchina Giappone. Inoltre i democratici, a differenza dei loro avversari, hanno promesso di non alzare le tassazioni al consumo per almeno 4 anni e, anzi, hanno dichiarato di voler diminuire le accise sui carburanti e eliminare i pedaggi autostradali. Questo fa a pugni con la politica ambientalista di Hatoyama, che vorrebbe limitare le emissioni di gas serra. In campo economico i limitati legami economici tra democratici e industriali farebbero ben sperare in riforme più severe e rivolte al rilancio della competitività. Hatoyama ha più volte ribadito la sua volontà di puntare sull’energia pulita e di avere intenzione di tagliare i sussidi alle aziende non redditizie. Tutto questo, molto probabilmente, non impedirà al Giappone di scendere al terzo posto nella classifica delle economie mondiali dopo Stati Uniti e Cina. Ed è proprio in campo della politica estera che il programma democratico rivela confusione. Dovendo far convergere le varie fazioni presenti nel movimento, Hatoyama è stato costretto a veri e propri equilibrismi oratori per non generare malcontento. Prima contrario alle missioni in Afghanistan, ora le appoggia. La sua invocazione ad una maggiore indipendenza del Giappone dagli Stati Uniti, si è trasformata in un generico “maggior rispetto in base ad un principio di egualitarismo”. Neppure la sua posizione verso l’Articolo 9 della Costituzione è chiaro, dovendo mediare tra la fazione di ex socialisti e ex socialdemocratici (favorevoli al mantenimento dell’articolo) e quella di ex liberal democratici (propensi ad un suo cambiamento). Il Partito Democratico ha meno di un anno per mostrare ai giapponesi i primi risultati del suo programma: nel 2010, infatti, gli elettori saranno richiamati alle urne per scegliere i rappresentanti della Camera Alta, attualmente a maggioranza democratica. Pur non essendo decisivo per la conduzione del Paese, il test sarà una prova di quanta fiducia i giapponesi ripongano verso il governo Hatoyama.
© Piergiorgio Pescali
S-21 - Nella prigione di Pol Pot
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