Il nuovo monito della Corea del Nord su un’eventuale escalation del conflitto nell’area nordorientale dell’Asia, non sorprende oramai più di tanto. I proclami di Pyongyang vengono utilizzati dalle diplomazie dei vari Paesi più per convogliare l’opinione pubblica verso una coesione nella politica estera, che per tastare il reale polso della situazione regionale. Girando per la Corea del Nord ci si accorge di come le isobare sociali restino immutate; nessun fermento, nessuna manifestazione di panico o di eccitamento che potrebbe indicare la preparazione ad una guerra. La televisione trasmette i soliti film patriottici, nei telegiornali i commentatori si soffermano su quelli che definiscono «i continui e inesorabili progressi della nazione», esortando il popolo a non abbassare la guardia contro i nemici della nazione. Così il «problema alimentare», come viene ufficialmente chiamata la crisi che dalla metà degli anni Novanta ha svuotato i magazzini statali, viene imputata a Stati Uniti, Sud Corea e Giappone, colpevoli «di aver volutamente aggravato le difficoltà interrompendo l’invio di carburante e di aiuti umanitari» rivela Pak Young Soo, maestro di una scuola secondaria di Nampho. E’ in questo contesto che occorre vedere le mosse di Pyongyang nel campo nucleare: il programma servirebbe come principale fonte di negoziazione per mantenere la sicurezza sociale ed economica necessaria alla nazione al fine di raggiungere l’obiettivo che si è dato il regime: rendere la Corea del Nord un Paese forte e prospero entro il 2012. In tre anni, infatti, Pyongyang vorrebbe rimuovere i principali ostacoli che si frappongono ad un nuovo balzo in avanti per riprendere quello sviluppo economico che negli anni Sessanta e Settanta aveva permesso al proprio popolo di raggiungere uno standard di vita dignitoso. «Un obiettivo immane e francamente irraggiungibile» mi dice Kyung-Sam, un nordcoreano che, clandestinamente, spedisce regolari rapporti sulla situazione del Paese al Rimjin-gang, un giornale giapponese che si occupa di monitorare la situazione della nazione. «I problemi da risolvere sono tantissimi e quasi tutti interni al sistema. Kim Jong Il, contrariamente a quanto si afferma all’estero, ha sinceramente cercato di cambiarlo, ma le forze conservatrici che vi si oppongono hanno radici molto profonde». La voce di Kyung-Sam, assieme a quella di pochi altri, è lo specchio di come il Paese stia mutando: il dissolvimento del Comecon, la caduta dell’URSS e il cambiamento di indirizzo economico della Cina, hanno costretto Pyongyang ad aprire le proprie frontiere a riforme economiche proto capitaliste. Presso Wonsan visito uno dei tanti jangmadang, un mercato dove i privati possono vendere e comprare tutto quello che i negozi statali non offrono: verdura, frutta, carne, latte, vestiti, persino televisori e video giapponesi. «I prezzi sono quattro o cinque volte più alti di quelli praticati nelle rivendite ufficiali» spiega Soo-Jin, la mia guida, «ma è permesso anche il baratto». Nelle campagne, specialmente nelle regioni settentrionali al confine con la Cina, lo sfinimento della popolazione è palpabile: la malnutrizione rivela la latitanza dello stato nel prendersi cura dei propri cittadini, negli ospedali mancano le medicine e i frequenti black-out mettono fuori uso i macchinari delle industrie. E’ in quest’area che Laura Ling e Euna Lee, le due giornaliste statunitensi entrate clandestinamente dalla Cina, sono state arrestate. Nonostante le condizioni disperate di molte famiglie, nessuno osa criticare il governo: intervistandole raccolgo frasi che illustrano la visione comune a molti cittadini nordcoreani: «Il Partito cerca di aiutarci e dobbiamo essergli grati; non possiamo imputargli gli errori di alcuni funzionari», «In Corea del Sud gli statunitensi hanno colonizzato il paese depauperandolo delle sue ricchezze.», «Noi abbiamo il dovere di restituire la libertà ai fratelli del Sud.» Ma più mi avvicino al 38° Parallelo, più la visione cambia: a Kaesong, dove un centinaio di aziende sudcoreane impiegano seimila operai nordcoreani, la condivisione di idee ha contribuito anche a creare un clima più disteso. In-Su afferma che «il livello tecnologico delle aziende del sud non è primitivo come avevo creduto ed i diritti che abbiamo garantiti sono migliori di quando lavoravamo a Pyongyang». Da parte loro i sudcoreani ammettono che la propaganda del loro paese aveva fatto credere loro di trovarsi di fronte ad un popolo ottuso e ignorante: «Niente di tutto questo: il livello culturale e tecnologico della manodopera nordcoreana è eccellente. Il sistema, almeno in questo, ha funzionato.» sostiene Lee Chin-Ho, della Sonoko Cusineware, che si dice anche contrario al boicottaggio chiesto dalle Nazioni Unite verso Pyongyang. «Il boicottaggio serve solo a tendere il filo. Cosa succederà quando si spezzerà?»
© Piergiorgio Pescali
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