La televisione nordcoreana trasmette in continuazione le immagini del lancio del missile Taepodong 2, avvenuto il 5 aprile scorso, accompagnandole con trionfanti frasi inneggianti a Kim Jong il e alla sua politica «di continue vittorie che hanno permesso al popolo coreano di raggiungere livelli tecnologici invidiati da tutto il mondo». Visto da un’altra prospettiva, invece, il lancio, oltre che essere stato un fallimento (il satellite si è inabissato nell’oceano Pacifico), è stato una vera e propria provocazione. «Per anni abbiamo cercato di coinvolgere Pyongyang in un dialogo che non la isolasse, abbiamo consentito l’invio di aiuti alimentari e finanziari, ma tutto è stato inutile. Ora dobbiamo affrontare severamente la crisi.» ha dichiarato Song Dae Sung, neo presidente dell’influente Sejong Institute, il più importante centro di studi sudcoreano. Le parole di Song Dae Sung sono state messe in pratica da Lee Myung-bak, che ha deciso di cavalcare la difficoltà alimentare che da anni imperversa nel nord, per indurre Kim Jong Il ad abbassare i toni della contesa. A Koin-ni, nella regione settentrionale della Corea del Nord, Park Mun Il, un contadino che lavora nella cooperativa locale, accusa il governo di Seoul di irresponsabilità: «Noi siamo pronti a collaborare con i nostri fratelli del Sud, ma Lee Myung-bak vuole riportare lo stato delle relazioni tra i due Paesi come erano negli anni Cinquanta.» Il fatto è che il nuovo governo sudcoreano è convinto che la politica del dialogo inaugurata dall’ex presidente sudcoreano Kim Dae Jung nel 2000 e premiata con il premio Nobel per la Pace, non ha mai funzionato. Così, come spiega Lee Jong-joo, responsabile per il governo di Seoul del settore per gli aiuti umanitari verso il Nord, «la Corea del Sud ha deciso di uniformarsi alla politica degli altri paesi, inviando aiuti alimentari a Pyongyang solo nel caso in cui ci sarà permesso di controllare direttamente come e a chi vengono distribuiti.» Il “problema alimentare” come viene chiamato qui in Corea del Nord (ufficialmente non si è mai parlato di crisi o di carestia), è iniziato nel 1995, quando una serie di violente alluvioni ha devastato i raccolti. Senza più gli aiuti dei Paesi del Comecon, Pyongyang si trovò ad affrontare la peggiore congiuntura della sua storia. «Immaginate che un qualunque Paese europeo, da un giorno all’altro, smetta di ricevere aiuti. Niente petrolio, niente zucchero, niente parti di ricambio per i macchinari. Quanto pensate resisterebbe? Noi in Corea del Nord abbiamo sperimentato questo isolamento e cerchiamo di porvi rimedio, ma abbiamo bisogno di aiuto e solidarietà.» mi dice Kang Ki-woon, funzionario del Dipartimento degli Affari Esteri. In effetti gli aiuti sono arrivati, ma in cambio l’FMI ha convinto Kim Jong Il a varare riforme liberali nelle campagne che però non hanno risolto i problemi. Non c’è anno in cui il Programma Alimentare Mondiale (PAM) non lanci l’allarme carestia. Delle 5,5 tonnellate di cereali che l’agricoltura nordcoreana dovrebbe fornire per sfamare i suoi 23 milioni di abitanti, solo l’80% viene prodotto internamente e una parte sostanziale di questa viene perduta per la mancanza di macchinari e carburante atti al raccolto, trasporto e alla distribuzione. Secondo Marcus Noland, professore alla Peterson Institute for International Economics e autore del libro Famine in North Korea: Markets, Aids and Reform, «il 37% della popolazione sopravvive grazie agli aiuti internazionali e almeno metà del cibo consumato internamente proviene dai mercati privati organizzati dai contadini o dagli stessi funzionari statali, che si accaparrano il 30% degli aiuti internazionali per poi rivenderli». Tra tutto questo appare francamente incomprensibile la decisione del governo nordcoreano di rifiutare la donazione di cibo da parte degli Stati Uniti (circa 170.000 tonnellate) e la chiusura delle attività di tutte le ONG statunitensi, che si aggiungono ad altre organizzazioni umanitarie come Médicines Sans Frontières che hanno lasciato volontariamente il Paese per mancanza di garanzie di indipendenza nel proprio lavoro. «900.000 persone beneficiavano dei programmi di assistenza coordinati dalla USAID» dice Joy Portella, della Mercy Corps, la maggiore ONG presente in Nord Corea. «Avevamo ottimi rapporti con le autorità; saremo comunque pronti a rientrare appena le condizioni ce lo premetteranno.» E’ Kim Dong-ho, studente alla Kim Il Sung University di Pyongyang, che cerca di darmi una spiegazione al mio sconcerto: «in tempi così difficili qualche funzionario può vedere indebolita la propria fiducia nel Partito e lasciarsi corrompere dalle agenzie capitaliste che lavorano in Corea del Nord. E’ anche per questo che la nostra guida, Kim Jong Il, ha deciso di limitare l’accesso delle organizzazioni straniere nel Paese.» Con un’economia mossa da un sistema finanziario a tre monete (dollaro, yen giapponese e won nordccoreano), la società si è sempre più stratificata e solo i pochi fortunati che hanno contatti con l’estero da cui ricevono aiuti sia finanziari che materiali, possono acclamare la correzione di rotta propugnata da Kim Jong Il. Gli altri, la grande maggioranza della popolazione, i contadini, gli operai impiegati nelle fabbriche statali e nei servizi, arrancano disperatamente con uno won che ha perso praticamente il proprio valore. «Un chilo di riso costa 1.600 won (circa 11 dollari al cambio ufficiale), un chilo di carne di maiale 2.800 won. Una famiglia può permettersi di mangiare solo grano, che costa 600 won al chilo e un uovo, venduto a 400 won.» afferma un rifugiato nordcoreano ai microfoni del Daily NK, un’agenzia che, da Seoul, si occupa di monitorare gli avvenimenti in Nord Corea. Chi vive vicino alla frontiera cinese e riesce a trovare guardie compiacenti (non è difficile se si hanno i giusti agganci e “lubrificante” in gran quantità), si arricchisce con il contrabbando. Nelle zone vicino alla frontiera, le motociclette giapponesi e cinesi stanno soppiantando le biciclette. Altri fortunati sono i 6.000 operai nordcoreani che lavorano nel centinaio di aziende straniere (per lo più del Sud) guadagnando circa 50 dollari al mese, il doppio di uno stipendio normale. «Le condizioni di lavoro sono migliori qui che a Hamhung, da dove provengo» racconta un operario che lavora alla Hyundai di Kaesong; «Io spedisco tutto il mio stipendio alla mia famiglia, che ora ha aperto un piccolo spaccio a Wonsan visitato anche da turisti giapponesi» annuncia un altro. E’ da queste premesse che Kim Jong Il sta cercando di costruire un nuovo Paese. Se riuscirà o meno nel suo intento dipende, oltre che dal suo stato di salute precario, anche dalle spinte conservatrici all’interno del Partito e dagli sviluppi politici dei Paesi più coinvolti nella crisi: Giappone, Sud Corea, Cina e, in particolare Stati Uniti che con l’amministrazione Obama cercano di riaprire un dialogo con Pyongyang che troppo a lungo è stato disatteso.
© Piergiorgio Pescali
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