Quando il sole pennella di carminio il cielo di Srinagar ed il muezzin intona il takbir vespertino, i turisti si riversano sul lago Dal a bordo delle shikare per godersi la fresca brezza serale. Lo sciabordio dei remi che solcano le acque lacustri sfilando davanti alle house boats, fa per un attimo dimenticare di trovarsi nella capitale di una regione, che dal 1947, è stata la causa di tre guerre con il Pakistan ed un’altra con la Cina. Farooq Kotroo, proprietario dell’agenzia di viaggi Best Travel, non riesce a reprimere il suo entusiasmo guardando il lago punteggiato dalle gialle imbarcazioni: «Per la prima volta dal 1989 la stagione turistica registra il tutto esaurito». Secondo Kulbushan Jandial, Ministro del Turismo del Kashmir, nei primi cinque mesi del 2004 sono giunti a Srinagar più di 100.000 turisti indiani, contro i 20.000 dello scorso anno. Ma questo ottimismo è fuori luogo. «Se questo è il paradiso sulla terra, spero che quello nell’aldilà sia ben diverso. Altrimenti mi rifiuto di andarci.» scherza Michelle, una giornalista canadese, prendendo come spunto il sillogismo usato nei depliants turistici, che paragonano il Kashmir al giardino dell’Eden. La stessa Srinagar, la cui sicurezza costa alle autorità di Nuova Delhi 70 milioni di rupie al giorno, è stata oggetto di diversi attentati in questi mesi. Alcuni sono particolarmente significativi per misurarne la tensione politica: il 29 maggio è stato ucciso Moulvi Mushtaq Ahmad, zio di Moulvi Muhammad Umar Farooq, uno dei leader religiosi più influenti del Kashmir e, poche settimane dopo, una bomba è scoppiata a Lal Chowk, in pieno centro cittadino ammazzando diverse persone.
La situazione è ancor più instabile nelle campagne: ogni settimana le forze militari indiane danno notizia dell’uccisione di una quarantina di militanti filopakistani. In luglio, dopo un periodo di relativa inattività, si sono rifatti vivi a Pahalgam, dove una bomba è esplosa in un albergo pieno di turisti indiani uccidendone cinque e ferendone una trentina. I portavoce dei gruppi al-Nasireen e Jamiat ul-Mujahedeen, dopo aver rivendicato congiuntamente l’attentato, hanno ammonito i turisti: "Il governo indiano vuole mostrare al mondo che il movimento di resistenza kashmiro è finito. Non è così! Avvertiamo i turisti di andarsene". Chiunque giunga in Kashmir non può evitare di notare l’enorme quantità di militari indiani dispiegati in tutta la regione: circa un milione, uno ogni otto abitanti. Lungo i 450 chilometri d’asfalto che congiungono Jammu con Kargil passando da Srinagar, si incontrano pattuglie in assetto di guerra ogni tre o quattro chilometri. L’ossessione del nemico raggiunge il ridicolo nei pressi della Linea di Controllo stilata dalle Nazioni Unite nel 1949 e dove gli eserciti pakistano e indiano si fronteggiano. Qui cartelli segnalano al viaggiatore di prestare la massima vigilanza perché il nemico (il Pakistan) osserva ogni sua mossa. Una volta che ci si allontana dal confine altri cartelli rassicurano che “You are out of danger now”. L’India nega l’accesso alla regione ai giornalisti. Per il nostro bene, ci viene detto. Naturalmente! Meno occhi indiscreti fanno sempre comodo. Parvina Ahanger è uno di questi occhi indiscreti, ma, essendo kashmira purosangue, ha tutto il diritto di vivere qui. Parvina è anche presidente dell’Associazione delle Persone Scomparse e questo rende la sua sopravvivenza alquanto precaria: «Migliaia di persone sono state prelevate dai militari indiani solo perché sospettate di essere simpatizzanti di movimenti indipendentisti. Torture e esecuzioni sono all’ordine del giorno.» La kashmiriyat, l’identità kashmira che è sopravvissuta in ogni abitante come retaggio dei brevi e travagliati periodi di indipendenza goduti dalla regione nella sua lunga storia, si esprime oggi attraverso un forte orgoglio indipendentista. Almeno il 75% della popolazione, secondo alcuni recenti sondaggi, è favorevole all’emancipazione dall’India. Ma quale tipo di indipendenza si vuole ottenere? Se Yasin Malik, leader storico del Jammu-Kashmir Liberation Front (JKLF), vorrebbe la formazione di uno stato secolare, altri come Omar Farooq lo vorrebbero islamico. E quale stato? Il Kashmir a maggioranza musulmana, oltre ad essere diviso tra India e Pakistan, comprende anche il Jammu dove prevalgono gli hindù e i sikh, e il Ladakh buddista, parte del quale è sotto controllo cinese. Inoltre, se alcuni leaders secessionisti vorrebbero l’indipendenza solo della regione musulmana indo-pakistana, altri si battono per la completa indipendenza dell’intero stato comprendendo anche le comunità buddiste e pandit. Il filo storico a cui si collegano i secessionisti è il 1989, anno in cui è stato fondato il JKLF. La disgregazione dell’URSS e la successiva autodeterminazione delle regioni centroasiatiche ha funto da faro per la lotta politica e militare. «Se ce l’hanno fatta loro possiamo farcela anche noi» afferma Yasin Malik nella sede del suo movimento. Non tutti condividono: a Leh, capitale del Ladakh, un ristorante tibetano ha un adesivo con la scritta Ladakh libero dal Kashmir. Del resto sono ben pochi i non musulmani che vorrebbero aggregarsi ad un’ipotetica nazione islamica, anche se i kashmiri sono molto tolleranti. La paura proviene dal Pakistan. «Nel 1991 150.000 pandit sono fuggiti dal Kashmir e solo un anno fa qui a Nadimarg 24 persone, tra cui 11 bambini e 2 bambini sono stati massacrati dai militants. Restare in uno stato islamico sarebbe un suicidio» mi dice un pandit trasferitosi a Srinagar dopo l’eccidio di Nadimarg. A seguito dell’11 settembre il Pakistan, su pressione degli Stati Uniti, ha allentato l’appoggio militare ai gruppi islamici filopakistani che, dopo il 1993, hanno preso il sopravvento sugli indipendentisti nella lotta contro l’India. I due principali gruppi di militants, l’Hizb ul-Mujahedeen e il Lashkar i Taiba, sono entrati a far parte della lista dei gruppi terroristi stilata dal Dipartimento di Stati degli USA. «Non siamo terroristi» mi dice Salim Hashmi, portavoce dell’Hizb ul-Mujahedeen incontrato in gran segreto in una località poco distante dal confine pakistano; «I mujahedeen lottano per il popolo kashmiro e noi non possiamo abbandonare questa lotta solo per far piacere a certi circoli liberali e secolari che vogliono l’appoggio dell’Occidente per i loro interessi». Un chiaro avvertimento a Musharraf ed al timido dialogo che ha iniziato con l’India. Paradossalmente i militants, in un ipotetico tavolo delle trattative, sarebbero avvantaggiati rispetto agli indipendentisti, che pur rappresentano il volere della maggioranza dei kashmir. Nuova Delhi e Islamabad non potrebbero mai accettare un Kashmir libero e autonomo: la prima perché ha bisogno di mostrare la natura multireligiosa dello stato, la seconda perché l’amputazione di una regione musulmana potrebbe significare il fallimento dell’identità religiosa su cui si basa la repubblica islamica. Entrambe, infine, concedendo l’indipendenza ad una regione strategicamente importante come il Kashmir potrebbero innescare un processo di disintegrazione nazionale. E il “paradiso sulla terra”, per molti continua ad essere un inferno.
© Piergiorgio Pescali
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