I suoi libri hanno commosso ed emozionato milioni di persone. Però, per molti di loro, questa commozione non si è trasformata verso in indignazione verso la politica che l’Occidente e le multinazionali attuano nei confronti del Terzo Mondo. Inoltre molti dei suoi lettori hanno sentimenti di intolleranza verso l’altro, verso il diverso. Come si può conciliare con Dominique Lapierre?
Io non ho nessun’altra pretesa che di raccontare una storia scaturita da una ricerca sul campo che può durare anche tre o quattro anni. Una storia veramente completa su un momento storico o su un avvenimento del nostro tempo come, ad esempio, la tragedia di Bhopal. Sta poi al lettore farsi l’opinione di quello che legge. Io credo che tutti i miei libri siano occasione di indignazione, ma non mi piace la gente che predica. Non sono un attivista, sono uno scrittore che apre il suo cuore sui grandi avvenimenti del suo tempo.
Il prossimo Social Forum si terrà in India. Quale problemi, prospettive, obiettivi può rappresentare questo Social Forum rispetto agli altri Social Forum che ci sono stati in precedenza?
Non lo sappiamo ora, ma è interessante che un grande Paese come l’India con un miliardo e cento milioni di uomini, la seconda nazione al mondo, può accogliere questo Forum. Nel subcontinente indiano ci sono molti problemi, ma l’India è un Paese che da alcuni anni sta conoscendo un progresso straordinario. Ma il mio problema, la mia inquietudine è che tutte le cose positive che possono arricchire una nazione, possono anche essere prodotte a scapito dei più poveri. L’India è un Paese dove ogni sera 400 milioni di abitanti si coricano per dormire con lo stomaco vuoto.
Essere poveri ed al tempo essere indipendenti è praticamente impossibile. Come fare per spezzare le catene della povertà, quindi rendere indipendente l’uomo e quale è la sfida che l’Occidente dovrà affrontare nel prossimo secolo?
Credo che la più grande sfida è quella di condividere maggiormente la sua ricchezza con i Paesi poveri senza che i più ricchi dei Paesi poveri diventino più ricchi e i più poveri sempre più poveri. Credo che abbiamo una generosità grande, ma il problema maggiore è di sapere come possiamo condividere, con quali strutture la distribuzione della nostra generosità. E per questo io ho una piccola organizzazione umanitaria dove lavoriamo in completa trasparenza e posso dire che riusciamo a condividere con i più poveri.
Cosa rappresenta il libro che lei ha appena pubblicato?
E’ stato per me un detonatore per tutta la mia vita. E’ un libro che racconta la scoperta magica del mondo di un ragazzo appena uscito dalla terribile guerra mondiale. In un’epoca in cui i giovani hanno la fortuna di beneficiare di tutti i vantaggi della globalizzazione, quando quasi tutti i ragazzi hanno nelle loro case una carta di credito o un cellulare per esplorare il mondo senza sforzo e senza pericolo, mi sembra sia stata una magnifica idea quella di presentare la mia scoperta del mondo all’età di 17 anni con una borsa di studio offerta dal Ministero della Pubblica Istruzione Francese. Trenta dollari, una somma misera. Un giorno del luglio del 1949 sono partito da Parigi per Nuova Orleans: solo, con trenta dollari per la conquista dell’America!
Lei afferma che questo viaggio è stato benedetto da Dio. Perché?
A New Orleans mi misi subito alla ricerca di un posto per guadagnare qualche dollaro per raggiungere la meta finale. Il Messico, dove volevo fare una ricerca sulla civiltà Atzeca. Trovai un convento di suore Dominicane che mi offrirono dei lavoretti. Fu in quel convento che bevvi per la prima volta una Coca Cola, ancora sconosciuta in Europa.
Quando ha scoperto di voler diventare scrittore?
La prima volta fu quando un gruppo di messicani mi presero sulla loro macchina mentre facevo autostop. Ritornavano da una festa notturna e quindi erano stanchi, mi offrirono il posto di guida e fu lì, lungo le strade sconfinate del Texas che, pensando ai miei compagni di classe che in quel preciso istante erano su qualche spiaggia del Sud della Francia con i loro genitori, che decisi di scoprire il mondo.
Dopo la pubblicazione del suo primo libro, Un dollaro mille chilometri, lei ha sposato Dominique. Chi era Dominique e chi è oggi?
Era una stilista di moda. Per il viaggio di nozze abbiamo fatto il giro del mondo senza un dollaro.
Fui il primo giornalista non comunista a poter attraversare l’URSS in macchina. Nel 1964 Larin Collins mi catapultò in un’avventura completamente nuova: quella di ricostruire grandi avvenimenti storici, come la liberazione di Parigi dall’occupazione nazista o la nascita dello stato di Israele. Alla fine della nostra inchiesta per raccontare la lotta del Mahatma Gandhi, ho avuto una rivelazione: ho capito che uno scrittore di grandi successi letterari non doveva essere solo un testimone, ma anche un attore, che poteva cambiare anche la vita degli eroi dei suoi libri. Un giorno del 1981 all’età di 50 anni sono andato con mia moglie a Calcutta per incontrare Madre Teresa e dare soldi per aiutare a salvare bambini lebbrosi. Madre Teresa ci presentò ad un inglese chiamato James Stevens, un uomo di 40 anni, ex imprenditore, che aveva cominciato a raccogliere bambini lebbrosi, affetti da TBC ossea e da altre malattie dovute alla malnutrizione e curarli. Bambini dalla pancia gonfia di vermi che raramente passavano l’età di 7-8 anni. Stevens aveva chiamato il suo rifugio “Resurrezione” e rappresentava un isola di felicità nel cuore della peggior miseria. Stevens trovava anche un lavoro a che, all’età di 16 anni usciva dal suo rifugio e in India per ogni lavoro trovato ci sono 20 persone salvate. Ma quando arrivammo a Calcutta Stevens aveva ormai terminato tutti i suoi soldi e “Resurrezione” minacciava di chiudere. Fummo tanto impressionati che non esitammo di dare a Stevens la somma che avevamo portato a Calcutta e gli facemmo anche una promessa stravagante: «Caro Stevens» gli dicemmo, «faremo in modo che lei non chiuderà mai il suo rifugio d’amore e di speranza». Questa promessa era solo l’inizio di una meravigliosa avventura umanitaria perché un giorno Stevens ci condusse in una bidonville dove aveva raccolto i suoi primi protetti. Questo quartiere portava il nome paradossale di Città della Gioia e più di 75.000 si ammassavano in questo luogo grande poco più di due campi di calcio e dove la speranza di vita media era meno di 40 anni, dove per 3.000 abitanti c’era solo una fontana d’acqua ed una latrina, dove i monsoni trasformavano in un lago di escrementi e pestilenza, infestato da topi e da scarafaggi. Insomma, era l’infermo sulla terra. Eppure in questo inferno vi trovai più gioia, più sorrisi, più feste che in molte metropoli del nostro ricco Occidente. Trovai gente che sapeva amare, gente che sapeva spartire con i più poveri di loro, gente che sapeva ringraziare Dio per il mio beneficio, insomma gente più grande della maledizione che li colpiva.
Dopo due anni di incontri straordinari scrissi un libro che intitolai con il nome del quartiere da cui avevo tratto il racconto: La Città della Gioia. Sin dall’inizio avevo deciso di offrire la metà dei miei diritti d’autore ai poveri di Calcutta. Volevo contribuire a cambiare anche molto modestamente le condizioni si vita al maggior numero possibile di questi esseri sfortunati.
© Piergiorgio Pescali
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