Non dimenticare la storia


Als die Nazis die Kommunisten holten, habe ich geschwiegen;
ich war ja kein Kommunist.
Als sie die Sozialdemokraten einsperrten, habe ich geschwiegen;

ich war ja kein Sozialdemokrat.
Als sie die Gewerkschafter holten, habe ich nicht protestiert;

ich war ja kein Gewerkschafter.
Als sie die Juden holten, habe ich nicht protestiert;

ich war ja kein Jude.
Als sie mich holten,
gab es keinen mehr, der protestierte.


Quando i nazisti vennero per i comunisti, io restai in silenzio;
non ero comunista.
Quando rinchiusero i socialdemocratici, rimasi in silenzio;
non ero un socialdemocratico.
Quando vennero per i sindacalisti, io non feci sentire la mia voce;
non ero un sindacalista.
Quando vennero per gli ebrei, non protestai;
non ero un ebreo.
Quando vennero per me, non era più rimasto nessuno che potesse far sentire la mia voce.

(Emil Gustav Friedrich Martin Niemöller; Lippstadt, 14 gennaio 1892 – Wiesbaden, 6 marzo 1984)



S-21 - Nella prigione di Pol Pot

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S-21; un romanzo storico, una narrazione viva e potente che porta il lettore in una struttura detentiva istituita dal regime degli Khmer Rossi, una prigione da cui pochi sono tornati, seppur segnati nel corpo e nello spirito, vivi.

IL CUSTODE DI TERRA SANTA - un colloquio con padre Pierbattista Pizzaballa

IL CUSTODE DI TERRA SANTA - un colloquio con padre Pierbattista Pizzaballa
FESTIVAL FRANCESCANO 2014 - Rimini, piazza Tre Martiri,SABATO 27 SETTEMBRE - ORE 15.00 Presentazione del libro Il Custode di Terra Santa

INDOCINA - Un libro, una saggio, una guida per chi vuole approfondire

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Xinkijang - Reportage

«E’ meglio mantenere intatto uno stato piuttosto che portarlo alla rovina» consiglia Sun Tzu ne L’arte della guerra. Nello Xinkjiang, questa massima è stata seguita fedelmente; anzi il governo cinese sino a prima dell’11 settembre ha continuato a negare che nella nazione esistesse un “problema Xinkjiang” e per dimostrarlo ha mantenuto aperta la provincia al turista individuale fin dagli anni Ottanta. In verità, ancora oggi, i segni della conquista e sottomissione cinese nei confronti della maggioranza autoctona uigura, devono essere cercati con cura. Non perché non ve ne siano, ma perché la soggezione all’etnia han, a cui appartengono i cinesi, è ben mascherata da una forzata modernizzazione mal digerita dagli uiguri, fortemente legati alle proprie tradizioni. Anche l’autonomia della regione, concessa nel 1955, è in realtà solo uno specchietto per le allodole. Nello Xinkjiang tutto è in funzione cinese: dalle università, che nel settembre 2002 hanno abolito i corsi in lingua uigura, alle fabbriche, i cui posti dirigenziali sono riservati agli han perché, come ha recentemente riferito il Segretario Generale del Partito Comunista provinciale, Wang Lequan (han anch’egli), gli uiguri non sono fatti per il lavoro in fabbrica. Vero è, comunque, che la Cina ha investito negli ultimi tre anni, miliardi di dollari per sviluppare questa provincia, che rimane la più povera della nazione. Scuole, creazione di infrastrutture, incremento del turismo e industrializzazione, hanno migliorato le condizioni di vita oltre che degli han, anche delle razze autoctone. Ma, come spesso accade, anche lo sviluppo può essere interpretato in due modi opposti: il recente trasferimento di mille famiglie uigure in appartamenti nuovi, dotati di tutti i comfort e l’abbattimento di 5.000 vecchie case per fare spazio a centri commerciali, uffici e residenze, è stato visto come l’ennesima manovra per estirpare la cultura indigena. Per decenni Pechino ha considerato ogni tentativo di salvaguardia culturale un reato contro l’unità dello stato nonostante la maggioranza degli uiguri si sia più volte dimostrata indifferente alla causa secessionista. La lotta di organizzazioni ambientaliste contro le installazioni nucleari nel deserto di Taklamakan o la professione della fede islamica, a cui aderisce la maggioranza degli uiguri, hanno indotto il governo centrale a vedere in ogni formazione che agisca al di fuori dalla propria sfera di influenza, un focolaio indipendentista. Così Rebiyah Kadeer, una prominente donna d’affari dello Xinkjiang, dopo essere stata elogiata per i suoi successi imprenditoriali dalla dirigenza cinese, dal 1999 si è ritrovata in carcere per aver spedito al marito, residente negli Stati Uniti, documenti ritenuti riservati (in realtà erano solo ritagli di giornali che criticavano la politica dell’amministrazione provinciale dello Xinkjiang).
Pechino, inoltre, preoccupata che il crollo dell’URSS e la secessione delle repubbliche centroasiatiche nel 1991 potesse ridare speranze alle istanze indipendentiste, ha adottato un’abile politica di apertura internazionale. A darle una mano sono state le divisioni esistenti negli stessi movimenti indipendentisti dello Xinkjiang, i cui punti di coesione, più che il nazionalismo, sono il sentimento panturco e l’islamismo. Questi due fattori combinati insieme hanno creato i presupposti perché, dopo l’11 settembre, gli stessi Stati Uniti, un tempo critici verso la Cina in fatto di diritti umani, avvallassero la richiesta di Pechino di includere una delle organizzazioni uigure più rappresentative, l’East Turkestan Islamic Movement (ETIM) tra la lista dei gruppi terroristici. La cooperazione tra la prima potenza mondiale e quella asiatica ha dato i suoi frutti: il 3 ottobre scorso Hasan Mahsun, leader dell’ETIM, è stato ucciso assieme ad altre otto persone dalle forze pakistane durante l’assedio di un sospetto covo di al-Qaeda, nella regione del Waziristan, dove oggi si pensa si celi Osama bin Laden. Tornano in mente le parole di Nuovola Nera, il ribelle dello Xinkjiang, nel film La tigre e il dragone di Ang Lee: «Il deserto se ne infischia delle leggi degli uomini. Chiunque lo abita diventa un bandito e poco a poco ti accorgi che i tuoi compagni sono la tua famiglia e tu, senza volerlo, ti ritrovi addosso un nome tremendo che spaventa la gente». Parole che riassumono l’opposta concezione di libertà che divide Pechino dalle popolazioni turkestane, ma che indicano, anche, la completa assenza di un concetto di nazionalità nel pathos uiguro.
Non è stato quindi difficile, per gli stati panturchi dell’Asia Centrale voltare le spalle agli uiguri dopo la creazione della Shanghai Cooperation Organization (SCO). Kyrgyzstan e Kazakstan hanno espulso numerosi rifugiati rimandandoli in Cina, mentre cittadini di quei Paese di etnia uigura sono stati arrestati o privati di diritti civili. Dopo essersi assicurata che nessuno stato centro asiatico offra aiuto all’indipendentismo, è la Cina ora che deve mostrare la propria disponibilità al dialogo. Senza trucchi e senza inganni.

© Piergiorgio Pescali

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