Per secoli è stato il Turkestan, un termine di origine iraniana che significa Terra del Popolo Turco, crocevia di innumerevoli carovaniere che formavano quella ragnatela di sentieri chiamati Via della Seta, percorsi da mercanti di ogni razza, fede e cultura. Marco Polo descrisse ampiamente questa terra che «aguale è al Gran Cane e adorano Malcometto (…) e sono tra greco e levante (…) e sonvi molti mercanti che cercano tutto il mondo; e sono gente iscarsa e misera, che mal mangiano e mal beono». Da queste lande, abitate prevalentemente da uiguri di ceppo turco, partirono gli Unni alla conquista di un’Europa ancor più divisa di quanto fossero loro, popolazioni nomadi, di poca disciplina, ma dotate di un gran senso di solidarietà tra clan. Poca nazione, molta comunità, insomma. E proprio questo scarso senso nazionale ha permesso alle varie potenze di manipolare gli uiguri per i loro interessi strategici. A partire dalla Cina, che iniziò a controllare il Turkestan nel II secolo a.C., per continuare con la Gran Bretagna, che nel 1862 armò e appoggiò Yakub Beg in una rivolta musulmana contro i Qing, prima che questi nel 1884 si annettessero l’intera regione. E per far capire di non aver intenzione di riperderla, le affibbiarono un nuovo nome nella loro lingua, il mandarino: Xinkjiang, “Nuove Terre”. Una sorta di Nuovo Mondo in cui l’aggettivo sottintendeva un riordino completo della regione in funzione antiturca, antirussa e, in seguito, antisovietica. Nei piani cinesi, lo Xinkjiang avrebbe dovuto essere un’appendice indipendente dell’impero, ma ad esso indissolubilmente legata. La caduta dei Qing nel 1911 consegnò la regione ad una serie di signori della guerra anticomunisti e al tempo stesso sanguinari. L’ultimo di loro, Sheng Shikai, massacrò 200.000 comunisti, intellettuali, studenti e nazionalisti musulmani. Solo nel 1940 emerse una figura carismatica, Osman, che 12 novembre 1944 portò il Turkestan Orientale ad un breve periodo d’indipendenza terminato nell’agosto 1949, quando l’aereo che trasportava i leader turkestani a Pechino per discutere il futuro della nazione con i comunisti, precipitò. Con esso si schiantarono le ultime speranze di indipendenza. Osman, che uiguro non era, bensì kazako, lottò fino al 1951, anno in cui venne arrestato e giustiziato. Da allora gli uiguri non hanno più saputo eleggere un leader veramente rappresentativo e questo, assieme alla sclerotizzazione dell’intera regione centro-asiatica, divisa tra i comunisti cinesi e sovietici, con i confini chiusi ermeticamente ad ogni occhio indiscreto, abbandonò gli uiguri al loro destino, permettendo a Pechino di trasferire nello Xinkjiang milioni di cinesi di razza han e di trasformare il deserto di Taklamakan nel più importante sito di test nucleari del Paese. L’autonomia della regione, concessa nel 1955, è in realtà solo uno specchietto per le allodole. Nello Xinkjiang tutto è in funzione cinese: dalle università, che nel settembre 2002 hanno abolito i corsi in lingua uigura, alle fabbriche, i cui posti dirigenziali sono riservati agli han perché, come ha recentemente detto il Segretario Generale del Partito Comunista provinciale, Wang Lequan (han anch’egli), gli uiguri non sono fatti per il lavoro in fabbrica. Vero è, comunque, che la Cina ha investito negli ultimi tre anni, miliardi di dollari per sviluppare questa provincia, che rimane la più povera della nazione. Scuole, creazione di infrastrutture, incremento del turismo e industrializzazione, hanno migliorato le condizioni di vita non solo degli han, ma anche delle razze autoctone. Ma, come spesso accade, anche lo sviluppo può essere interpretato in due modi opposti: il recente trasferimento di mille famiglie uigure in appartamenti nuovi dotati di tutti i servizi e l’abbattimento di 5.000 vecchie case per fare spazio a centri commerciali, uffici e residenze, è stato visto dagli uiguri come l’ennesimo tentativo di estirpare la loro cultura. Il crollo dell’URSS e la secessione delle repubbliche centroasiatiche nel 1991 aveva ridato speranze alle istanze indipendentiste, ma l’abile politica di apertura internazionale di Pechino e, soprattutto, le divisioni all’interno dello stesso movimento secessionista (i cui punti di coesione, più che il nazionalismo, sono il sentimento panturco e l’islamismo), hanno creato i presupposti perché, dopo l’11 settembre, gli stessi Stati Uniti, un tempo critici verso la Cina in fatto di diritti umani, avvallassero la richiesta di Pechino di includere una delle organizzazioni uigure più rappresentative, l’East Turkestan Islamic Movement (ETIM) tra la lista dei gruppi terroristici. Ed ora che anche gli stati panturchi dell’Asia Centrale sembra abbiano voltato le spalle agli uiguri dopo la creazione della Shanghai Cooperation Organization (SCO), assicurandosi che nessuno stato centro asiatico offra aiuto all’indipendentismo, è la Cina che deve mostrare la propria disponibilità al dialogo. Senza trucchi e senza inganni.
© Piergiorgio Pescali
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