Esiste una parola, nella tradizione tibetana, che riassume l’intera politica del paese: yon-bdag. Tradotta, significa più o meno sacerdote-protettore e indica il rapporto esistente, dal XIII secolo, tra potere spirituale e il potere temporale che lo protegge. La storia del Tibet si è sempre espressa in base a questo rapporto, il cui equilibrio ha determinato il grado di indipendenza della regione. La prima carta geografica del Tibet pervenutaci a noi risale al 1715, disegnata da un gesuita e mostra chiaramente una regione inglobata nell’impero cinese. Sino al XX secolo, sono sempre state le regioni a nord dell’Himalaya a tessere legami, più o meno pacifici con Lhasa. Solo con l’avvento dell’era moderna, anche l’India cominciò ad interferire, ma era un’India colonizzata da una Gran Bretagna timorosa dell’espansione russa in Centro Asia. Dal 1910 il Dalai Lama, che sino ad allora si era sempre rifugiato in Mongolia per sfuggire alle invasioni cinesi e inglesi, cominciò a percorrere i contrafforti hilamayani, tessendo i primi legami con il subcontinente. Da allora è stata l’India la culla della resistenza tibetana, anche se diplomaticamente New Delhi non ha mai riconosciuto il Tibet come nazione indipendente. L’asilo garantito da Nehru al Dalai Lama nel 1959, è sempre stato rispettato. E’ stato anche grazie a questa ospitalità che l’India ha ricevuto cospicui sovvenzionamenti e appoggi durante i conflitti con la Cina negli anni Sessanta. Oggi, però, le aperture con Pechino potrebbero cambiare le carte in tavola. Il governo tibetano di Dharamsala comincia ad essere un ostacolo non indifferente per la normalizzazione dei rapporti tra i due colossi e New Delhi potrebbe incoraggiare il Dalai Lama a trovare una soluzione al nodo tibetano. Ed in fretta.
© Piergiorgio Pescali
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