Non è sfuggito agli analisti più attenti il fatto che le manifestazioni cinesi contro il Giappone siano state più numerose nelle zone a ridosso di Hong Kong, frequentate e abitate da èlite di uomini d’affari cinesi xenofobi e filotaiwanesi emigrati negli USA, fortemente ostili al governo di Pechino e che vedono nel ristabilimento delle relazioni diplomatiche con Tokyo nel 1972 un tradimento delle istanze nazionaliste. Sulla base di queste considerazioni sono in molti, specialmente in Giappone, a credere che nei lanci di accuse tra Pechino e Tokyo ci sia un diretto interessamento di Washington. Gli Stati Uniti, utilizzando il canale della potente comunità cinese emigrata nel paese durante il periodo maoista, cercano di indebolire gli atteggiamenti di Pechino, a loro parere troppo intransigente nelle sue posizioni di politica estera e di protezionismo economico. Le manifestazioni antigiapponesi, infatti, hanno messo in difficoltà il regime di Hu Jintao non solo agli occhi dei vicini, Vietnam e India in particolare, ma anche sul piano interno. Una debolezza nei confronti del Giappone o una repressione nei confronti dei manifestanti, potrebbe rivolgere le proteste anche contro il Partito. Il ricordo di Tienanmen del 1989 è ancora vivo e se il Giappone è una democrazia, la Cina del XXI secolo si sta avviando ad esserlo ma ne è ancora lontana. In una prospettiva futura la Cina è molto più importante per gli USA di quanto lo sia il Giappone, già alleato fedele. Washington stesso non è favorevole a che Tokyo acquisisca il seggio al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, ed è disponibile a barattare il suo voto negativo con una maggiore apertura cinese in campo economico. Infine, Pechino è l’unica potenza regionale che può avere influenza sulla Corea del Nord. Averla come partner potrebbe consentire a Bush di tranquillizzare un fronte caldo, permettendo di impegnarsi con più vigore nel Medio Oriente e in Centro Asia.
© Piergiorgio Pescali
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