Quarant’anni di spietata colonizzazione giapponese, poi la guerra. Prima quella mondiale, poi quella fratricida conosciuta come Guerra di Corea innescata da profonde divisioni ideologiche e strumentalizzate a propri fini dalle grandi potenze d’allora.
Al termine di questo conflitto milioni di morti, di feriti, senzatetto, sfollati, rifugiati, un Paese completamente distrutto e diviso. Un popolo diviso. Famiglie divise. Un retaggio che ancora oggi, a quasi 60 anni di distanza, i coreani stanno pagando a caro prezzo.
Questo dramma, che ha sconvolto l’esistenza di milioni di persone, si materializza qui a Panmunjom, al 38° parallelo, in un bordo sottile di cemento alto poco più di dieci centimetri. Tanto basta per mantenere separati 70 milioni di persone che condividono storia, lingua, cultura, tradizioni, leggende. Una striscia che anche un pupetto di pochi mesi, barcollando a quattro zampe, potrebbe facilmente superare e che invece, qui riesce a mantenere divisi eserciti tra i più potenti al mondo.
Ai fragori dei cingoli dei carri armati, alle urla dei soldati, ai pianti dei civili in fuga, ai sibili delle bombe, ora si è sostituito il silenzio. Che, però, equivale al clamore della disperazione. Un silenzio assordante che dura da quel 27 luglio 1953, quando le due delegazioni, da una parte quella nordcoreana e dall’altra quella statunitense in rappresentanza dell’ONU, apposero sul documento dell’armistizio le loro firme, fondamenta per quella striscia di cemento invalicabile.
In seguito, Seoul eresse lungo tutta la DMZ un muro, questa volta vero, di cemento armato, identico a quella eretto a Berlino. La sua costruzione, come del resto quello che divide Cipro, non indignò il mondo “libero” perché eretto da una potenza ad esso alleata e per di più in prima linea a fronteggiare il “pericolo rosso”.
Dalla mia postazione privilegiata, oggi posso vedere i volti dei turisti che, dalla parte meridionale, osservano curiosi ed emozionati, questo “Regno Eremita” con binocoli, cannocchiali, cineprese, macchine fotografiche. Hanno espressioni grevi, non so se dovute al fatto di essere consci dei tragici eventi che simbolizza Panmunjom o per la paura di essere di fronte a quello che è stato per anni descritto come un paese guidato da pazzi guerrafondai, pronti a lanciare ordigni nucleari a destra e a manca.
Le guardie nord e sud coreane si scrutano a vicenda. Nei loro occhi non vedo odio, neppure rancore, ma noia, quella sì. Le giornate passano lente, monotone, tutte uguali da 50 anni a questa parte. Solo qualche allarme, di tanto in tanto, e del resto subito rientrato, ha aumentato la tensione. Se invasione ci dovrebbe essere, non è certo da qui che inizierebbe.
Giornate lente, scandite dal ritmo cadenzato dei passi al cambio delle guardie o dalle bandiere che garriscono svogliatamente al vento. Il vento… Solo lui, assieme agli uccelli ed alle nuvole, che non conosce confini. Neppure qui a Panmunjom.
© Piergiorgio Pescali
S-21 - Nella prigione di Pol Pot
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