Le guardie di frontiera si guardano a vicenda: ferme, impettite nelle loro impeccabili uniformi verdi quelle del Nord; continuamente in movimento, con occhiali tipo Ray-Ban a specchio, in tute mimetiche, muniti di cannocchiali e macchine fotografiche quelle del Sud. Mi trovo sul 38° parallelo, la linea tracciata al termine delle trattative dell’armistizio del 1953 e che divide la penisola coreana in due parti: quella meridionale, retta da un regime dalla linea capitalista fortemente influenzata dagli Stati Uniti, e quella settentrionale socialista, guidata dall’idea del Juche, ed economicamente legata ai Paesi dell’ex blocco socialista e, in particolar modo alla Cina.
Questo è uno dei tre ultimi muri che dividono un popolo nato e sviluppatosi sotto una medesima cultura, lingua, storia, religione (un altro si trova a Cipro e separa i greco-ciprioti da quelli di origine turca e il terzo a Belfast).
La maggior parte delle immagini che ci giungono dal 38° parallelo mostrano la scena che ho descritto in precedenza, con i due corpi di guardia schierati e separati da una sottile striscia di cemento. Sembrerebbe, a prima vista, una linea di demarcazione sui generis, estremamente facile da valicare, ma nella realtà alla barriera ideologica, che già da sola impedisce qualsiasi contatto tra i due popoli, è stata in seguito aggiunta una barriera fisica, rappresentata da un muro di cemento costruito a partire dal 1977 dal governo sudcoreano, una parte del quale ci viene mostrata dall’avamposto nordcoreano situato 27 chilometri ad est di Kaesong.
“Se fossimo stati noi a costruire questo muro, molto probabilmente anche il socialismo coreano oggi sarebbe solo un ricordo” spiega Lee, la guida che ci accompagna durante la visita nel Paese. E a ribattere con più veemenza questo concetto, fa la sua mostra un pezzo del muro di Berlino, donato da una scrittrice tedesca a Kim Il Sung ed esposto all’International Friendship’s Exhibition di Myohyangsan.
Come dire: innalza un muro, e quando questo si disgregherà anche ciò che hai costruito crollerà.
Non so quanto possa essere veritiera questa ipotesi alla luce dei fatti; non è certo il dissolvimento del muro di Berlino che ha prodotto lo sconquasso dell’Europa dell’Est, anzi è stato proprio lo squilibrio creatosi a causa dell’infragilirsi della cosiddetta “cortina di ferro”, e la conseguente permeazione delle idee liberiste, che ha minato le già fragili fondamenta ideologiche di queste nazioni.
Il 38° parallelo, invece, rimane. I due governi coreani da anni stanno cercando di trovare una breccia nelle rispettive posizioni attraverso la quale possa instaurarsi un dialogo costruttivo su cui porre le basi per l’unità della penisola. I risultati, sino ad oggi, non sono stati molto incoraggianti, anche perché l’incontro più significativo, quello tra i due presidenti Kim Il Sung e Kim Yong Sam, che avrebbe potuto imprimere una svolta decisiva al dialogo di riavvicinamento, è stato annullato per l’improvvisa morte di Kim Il Sung nel 1994.
Da allora l’unico importante accordo raggiunto dalle diplomazie è stato quello inerente alla centrale nucleare di Yonbong, accordo che ha dato un po’ di fiato all’economia nordcoreana, stremata dal dissolvimento del COMECON e dalle alluvioni degli ultimi anni.
Ma il 38° parallelo non ha diviso solo una nazione; come tutte le linee tracciate a tavolino, non ha tenuto conto dei drammi umani che generava separando famiglie che, nel continente asiatico non abbracciano solo i parenti più stretti, bensì un’intero albero generazionale. E in un Paese dove culto dei morti e tradizione confuciana si intersecano in ogni aspetto della vita quotidiana, impedire il perpetuarsi di queste pratiche è una delle punizioni più severe che un uomo di quella regione possa subire.
La striscia di cemento e, ancor più, il muro che impedisce la libera circolazione tra le due nazioni, costituiscono la testimonianza visiva del supplizio che sta vivendo il popolo coreano. Solo quando Panmunjon costituirà una mera attrattiva turistica del passato, i coreani potranno affermare di aver conquistato la loro piena indipendenza e libertà.
© Piergiorgio Pescali
S-21 - Nella prigione di Pol Pot
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