Non dimenticare la storia


Als die Nazis die Kommunisten holten, habe ich geschwiegen;
ich war ja kein Kommunist.
Als sie die Sozialdemokraten einsperrten, habe ich geschwiegen;

ich war ja kein Sozialdemokrat.
Als sie die Gewerkschafter holten, habe ich nicht protestiert;

ich war ja kein Gewerkschafter.
Als sie die Juden holten, habe ich nicht protestiert;

ich war ja kein Jude.
Als sie mich holten,
gab es keinen mehr, der protestierte.


Quando i nazisti vennero per i comunisti, io restai in silenzio;
non ero comunista.
Quando rinchiusero i socialdemocratici, rimasi in silenzio;
non ero un socialdemocratico.
Quando vennero per i sindacalisti, io non feci sentire la mia voce;
non ero un sindacalista.
Quando vennero per gli ebrei, non protestai;
non ero un ebreo.
Quando vennero per me, non era più rimasto nessuno che potesse far sentire la mia voce.

(Emil Gustav Friedrich Martin Niemöller; Lippstadt, 14 gennaio 1892 – Wiesbaden, 6 marzo 1984)



S-21 - Nella prigione di Pol Pot

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S-21; un romanzo storico, una narrazione viva e potente che porta il lettore in una struttura detentiva istituita dal regime degli Khmer Rossi, una prigione da cui pochi sono tornati, seppur segnati nel corpo e nello spirito, vivi.

IL CUSTODE DI TERRA SANTA - un colloquio con padre Pierbattista Pizzaballa

IL CUSTODE DI TERRA SANTA - un colloquio con padre Pierbattista Pizzaballa
FESTIVAL FRANCESCANO 2014 - Rimini, piazza Tre Martiri,SABATO 27 SETTEMBRE - ORE 15.00 Presentazione del libro Il Custode di Terra Santa

INDOCINA - Un libro, una saggio, una guida per chi vuole approfondire

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Imprigionati 24 membri di SNI

I ventiquattro membri dell’organizzazione Shelter Now International, otto stranieri e sedici afgani, imprigionati domenica dai Talebani con l’accusa di proselitismo cristiano, sono ancora sotto arresto a Kabul. Germania, Australia e Stati Uniti continuano a premere presso l’ambasciata dell’Emirato afghano a Islamabad per il rilascio dei loro cittadini, ma per ora tutti i tentativi di contattare il Ministero della Promozione e della Virtù, sono risultati infruttuosi. Anche se nel territorio controllato dai Talebani il proselitismo religioso è vietato e punibile con la morte, l’incriminazione dei volontari di SNI potrebbe piuttosto essere una mossa tattica per sbloccare la situazione di embargo politico e economico a cui l’Afghanistan è oggetto da diversi anni. Gli otto cittadini occidentali si troverebbero così trasformati in merce di scambio per ottenere un allentamento dell’embargo imposto dalle Nazioni Unite e la risoluzione dell’attuale crisi potrebbe dipendere dalla disponibilità di mediazione dell’organismo internazionale.
Ben più preoccupante, invece, si presenta la situazione dei sedici afgani che lavoravano presso gli uffici della SNI, i quali, senza l’ombrello diplomatico che protegge i loro colleghi, rischiano seriamente la pena di morte. Oltre a loro, si teme per il trattamento a cui verranno sottoposti cinquantanove bambini spediti in un “centro di correzione” per “disintossicarsi” da eventuali insegnamenti cristiani assorbiti durante il loro contatto con l’organizzazione tedesca.
«Noi abbiamo i nostri principi e intendiamo rispettarli.» mi ha detto a Kandahar, il Mullah Mohammad Omar Akund, amir ul mumineen (Supremo Leader della Fede) e massima personalità Talebani. «Se questo e' un peccato agli occhi del mondo, ebbene, siamo pronti a subirne le conseguenze qui in Terra per raccogliere i frutti nel Paradiso di Allah. Voi occidentali ci considerate pazzi, lo sappiamo bene, ma noi seguiamo solo ciò che dice il Corano. Noi consideriamo decadente il vostro sistema di vita, eppure non interferiamo sulle vostre decisioni.»
Ma il Mullah Omar vive a Kandahar, nel sud del Paese, una regione a maggioranza Pashtun, la stessa etnia da cui provengono gli studenti islamici che oggi governano l’Afghanistan e dove effettivamente la popolazione ha ritrovato un certo benessere sociale ed economico, ricambiando i Talebani con un appoggio incondizionato.
Kabul, come altre città del nord ovest afghano, abitata da decine di diversi gruppi etnici, non risente affatto di questo benessere. La capitale, ancora semidistrutta dalla furiosa guerra civile terminata solo nel 1996, quando i Talebani conquistarono il potere al termine di una vertiginosa ascesa militare, vive di pura sussistenza. Le fabbriche costruite dai sovietici sono state rase al suolo e i pochi macchinari salvati dalla furia di Gulbuddin Hekmatyar, trasportati in Pakistan. Chi non ha un lavoro nella struttura pubblica, l’unica che offre una pur grama garanzia di sopravvivenza, deve arrangiarsi come può. I più fortunati posseggono una tessera per qualche forma nan, il pane locale, distribuito due volte alla settimana. Sono le stesse autorità a decidere chi ha il diritto di ricevere la razione ed è logico credere che chiunque non goda della loro fiducia difficilmente potrà presentarsi ai centri di distribuzione. I più disperati arrivano a trafugare beni barattabili al mercato nero, attività particolarmente pericolosa perché se la polizia religiosa scopre un ladro, la punizione spesso è l’amputazione della mano. L’oppressione delle leggi islamiche, dirette specialmente contro le donne, a Kabul è evidente più che altrove: in una città che negli anni Sessanta e Settanta era meta di un turismo alternativo, nessuna donna può circolare se non accompagnata da un parente e l’unico lavoro oggi possibile è quello nelle corsie femminili degli ospedali o in alcuni (pochi) uffici ministeriali. E in un Paese da vent’anni in guerra, il numero di vedove è altissimo. «Come fate?» chiedo ad una delle poche donne cui mi è concesso di parlare, una vedova con cinque figli dai 2 ai 7 anni. «Mangiamo una volta al giorno una fetta di nan imbevuta in un zuppa.» Mahir, il più piccolo ha smesso di piangere da pochi minuti per la fame; è spossato e dai suoi occhi, due perle nere incastonate in una faccia già vecchia ricoperta da una pelle incartapecorita, non scaturisce neppure una lacrima. Anche quelle sono preziose, qui a Kabul. «Colpa dell’embargo dell’ONU» spiega Hasam, la mia “guida”. «Non solo» mi lascio sfuggire, guadagnandomi uno sguardo torvo da parte del mio angelo custode. La maggiore preoccupazione da parte del governo Talebani è quella di rendere la capitale, una città simbolo della trasformazione in atto nel Paese. Per questo le leggi islamiche qui vengono rese operative senza alcuna deroga, a differenza di quanto accade nelle campagne. La fedeltà riposta nei Talebani da parte della popolazione di etnia Pashtun, la più numerosa del Paese, ha indotto questi ad iniziare un processo di ricambio etnico a Kabul. Gli indizi di questa nuova azione, appena iniziata e non ancora visibile su scala generale, si possono osservare nei quartieri residenziali: gli Hazara, i Tajiki, gli Uzbeki, gli Iraniani lasciano piano piano il posto a nuovi arrivati Pashtun provenienti dalle regioni meridionali. «I trasferimenti forzati sono iniziati qualche mese fa.» conferma un rappresentante di una NGO occidentale, «Noi ce ne siamo accorti perché alle famiglie veniva notificato l’avviso di trasferimento con una settimana di preavviso, con il pretesto di riunire i gruppi etnici afgani nelle loro zone di provenienza. Poco dopo al posto dei vecchi residenti trovavamo nuove famiglie Pashtun.»
Ufficialmente questa politica non ha trovato alcuna conferma da parte del governo, ma sono sempre più le voci che la avvalorano.
Se è vero che la situazione a Kabul è drammatica, non altrettanto si può dire nel sud del Paese dove i Talebani hanno riportato la pace e la tradizione. In queste lande sono stati i sovietici che hanno dovuto imporre con la forza alle donne l’emancipazione: lo scoprirsi il volto, il lavoro, il diritto all’educazione. Tutte conquiste che, appena crollato il sistema socialista, la popolazione, donne per prime, non hanno esitato a dimenticare, rifugiandosi di nuovo nei burqa e rintanandosi nelle loro case. Qui davvero i Talebani non hanno imposto nulla, anzi. Le scuole, sovvenzionate con un programma dello Swedish Commettee for Afghanistan, funzionano anche per la componente femminile della popolazione e il sistema agricolo, con i canali d’irrigazione creati dall’URSS, produce cibo in quantità sufficiente per sfamare la popolazione. Il mantenimento della struttura idraulica, garantito dall’assistenza tecnica pakistana e saudita, permette l’adeguata annaffiatura delle colture cerealicole. Il problema è che il sistema di canalizzazione, concepito sulla base di una produzione collettivistica secondo l’idea dei kolchoz, oggi deve sostenere un’ossatura privata che ha spezzettato in una miriade di fazzoletti di terra l’intera superficie coltivata, dilapidando forza lavoro, attrezzature agricole e la preziosissima acqua. Tutto questo impedisce uno sfruttamento più redditizio del territorio che potrebbe alleviare, almeno in parte, la fame oramai cronica che affligge la popolazione afghana.

© Piergiorgio Pescali

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