Non dimenticare la storia


Als die Nazis die Kommunisten holten, habe ich geschwiegen;
ich war ja kein Kommunist.
Als sie die Sozialdemokraten einsperrten, habe ich geschwiegen;

ich war ja kein Sozialdemokrat.
Als sie die Gewerkschafter holten, habe ich nicht protestiert;

ich war ja kein Gewerkschafter.
Als sie die Juden holten, habe ich nicht protestiert;

ich war ja kein Jude.
Als sie mich holten,
gab es keinen mehr, der protestierte.


Quando i nazisti vennero per i comunisti, io restai in silenzio;
non ero comunista.
Quando rinchiusero i socialdemocratici, rimasi in silenzio;
non ero un socialdemocratico.
Quando vennero per i sindacalisti, io non feci sentire la mia voce;
non ero un sindacalista.
Quando vennero per gli ebrei, non protestai;
non ero un ebreo.
Quando vennero per me, non era più rimasto nessuno che potesse far sentire la mia voce.

(Emil Gustav Friedrich Martin Niemöller; Lippstadt, 14 gennaio 1892 – Wiesbaden, 6 marzo 1984)



S-21 - Nella prigione di Pol Pot

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S-21; un romanzo storico, una narrazione viva e potente che porta il lettore in una struttura detentiva istituita dal regime degli Khmer Rossi, una prigione da cui pochi sono tornati, seppur segnati nel corpo e nello spirito, vivi.

IL CUSTODE DI TERRA SANTA - un colloquio con padre Pierbattista Pizzaballa

IL CUSTODE DI TERRA SANTA - un colloquio con padre Pierbattista Pizzaballa
FESTIVAL FRANCESCANO 2014 - Rimini, piazza Tre Martiri,SABATO 27 SETTEMBRE - ORE 15.00 Presentazione del libro Il Custode di Terra Santa

INDOCINA - Un libro, una saggio, una guida per chi vuole approfondire

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A Shamali verso Kabul

Tre giorni di jeep su strade impossibili, che si inerpicano a strapiombo su su, fino a 5.000 metri, guadando fiumi con correnti che rischiano di trascinare la macchina a valle; attraversando villaggi la cui vita sembra essersi fermata a secoli fa. Tre giorni sballottati su e giù, a destra e a manca, senza un attimo di respiro ed eccoci nel Panshir, la oramai leggendaria valle costellata di carcasse di carri armati e blindati sovietici, solitari e tristi testimoni di una sanguinosa lotta che ha visto tanti vinti e nessun vincitore. Tanti vinti, perché hanno perso tutti: gli afghani per primi, che vedevano nella cacciata dell'URSS la soluzione per ritrovare una pace invece mai raggiunta; ma hanno perso anche i sovietici, che dall'Afghanistan si sono portati il morbo della disgregazione sociale e politica. Senza vincitori, perché i veri vincitori sono stati i trafficanti d'armi e di oppio, la cui fortuna è inversamente proporzionale al benessere sociale ed economico della popolazione. Brutti ceffi, i trafficanti d'armi; la peggior feccia dell'umanità. Ne ho incontrati due, proprio in un villaggio dove ci siamo fermati per la notte. Avevano un camion pieno di munizioni e di Kalashnikov fabbricati in Russia, rubati chissà dove e chissà come. Sempre la solita solfa che utilizzano per giustificare il loro turpe commercio: "Noi vendiamo oggetti; sta poi a chi li usa, farne buon uso." Per fortuna partiamo il mattino presto, così evitiamo di augurare loro buon viaggio.
Mi torna in mente ora questo incontro, mentre il generale Babajan, Comandante dell'aeroporto militare di Bagram, conta i suoi morti dopo una battaglia che ha tenuto impegnate le sue truppe per tutta la notte. Notti afghane... A volte così limpide, così chiare che le stelle paiono lucciole. Allora alzi il braccio ed apri la mano cercando inutilmente di afferrarne qualcuna. A volte, invece, così crudeli, così spettacolarmente lugubri, solcate da strisce di fuoco che si accompagnano al boato della morte e della distruzione. Dodici ore di inferno ed alla fine ti ritrovi sdraiato in qualche bunker con i nervi a pezzi. Pensi di essere il solo ad avere la tensione alle stelle, invece ti accorgi che anche coloro che la guerra la combattono da vent'anni, ritrovandosi ancora vivi (per l'ennesima volta) esprimono a modo loro il sollievo che provano. C'è Ramullah che ride per un nonnulla, lui che è sempre così serio; Mohammad, invece, se ne sta con il fucile puntato verso l'orizzonte, gli occhi fissi verso un punto indefinito. Poi ci sono Hassan, Abdullah, Khasim ed altri ancora. Cercano i loro fratelli, il loro padre, il loro amico con il quale hanno condiviso tante battaglie. A volte li ritrovano vivi, a volte morti. In entrambe i casi sono pianti e baci, intercalati a preghiere per Allah. Questa notte le bombe ne hanno falcidiati quindici. Saleh è tra questi. Lo avevo conosciuto in luglio, quando ero giunto nel Panshir e a Shamali. Mi aveva fatto conoscere la sua famiglia: la giovane moglie di 18 anni, il loro primo figlio di due anni, che barcollava gironzolando per la stanza. Avevamo mangiato assieme e avevamo riso assieme. Aveva grandi progetti, Saleh. Era la guardia del corpo del generale Babajan e per lui era aperta la carriera diplomatica. Aspettava di andare all'ambasciata di Teheran, ma proprio la settimana in cui doveva partire, Massud era stato ucciso. Ha deciso di restare a Shamali: "Sono un soldato. Cosa potrei fare a Teheran?" mi aveva confidato l'altro giorno quando sono tornato a Shamali e ci siamo abbracciati. Fatimah, la moglie di cui non ho mai visto il volto, sempre coperto dal burqa, mi aveva accolto nella loro casa con la sua bella voce rotta dall'emozione. E mentre il loro figlioletto girovagava per la stanzetta, avevamo preso tutti e tre il tè. L'ultimo.
Ero assieme a Saleh trenta secondi prima che scoppiasse la granata. Sono andato a prendere il taccuino su cui annotare alcune impressioni e mi sono ritrovato solo, senza nulla da scrivere, nessuna voglia di parlare. Sono solo come il bambino di Saleh, che non capisce cosa stia accadendo e continua perplesso a guardare la madre che si dispera. Dovevano essere nelle bella Teheran, ora; invece eccolo qui, Saleh, immobile. Forse suo figlio pensa stia solo dormendo e che appena sorgerà di nuovo il sole, i suoi occhi incontreranno quelli di suo padre e tutto sarà come prima. Lasciamoglielo credere.
Il generale Babajan afferma che l'attacco di stanotte è stato solo dimostrativo. "I Taleban sapevano benissimo che non avrebbero potuto avanzare e anche nel caso avessero conquistato l'aeroporto, non sarebbero stati in grado di tenerlo." Quindici morti per un attacco "dimostrativo". E quanti tra i Taleban? E per dimostrare che cosa?
Kabul e' a soli 40 km da qui e la piana delimitata dai primi contrafforti della città è interamente in mano alle forze dell'opposizione. In luglio, dalla torre di controllo, potevo vedere a occhio nudo i Taleban appena al di là del recinto che delimita la pista di decollo. Oggi sono tutti in attesa dell'attacco decisivo su Kabul. Saleh voleva rivedere la sua città natale: "La riprenderemo, anche se gli americani rifiuteranno di bombardare la linea del fronte." Saleh non rivedrà Kabul, ma il generale Babajan sta già predisponendo i piani per quella che, secondo lui, dovrebbe essere l'avanzata decisiva. "Rivedremo Kabul, e mio figlio, il figlio di Saleh, crescerà a Kabul. Insha Allah!" esclama Fatimah.

© Piergiorgio Pescali

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