La vicenda dell’ONG “Shelter Now”, ha riproposto il copione, tanto amato dall’Occidente, di un Afghanistan devastato umanamente e politicamente da un gruppo di islamici “fondamentalisti”, il cui passatempo principale sarebbe quello di distruggere statue, negare i più elementari diritti umani ai propri cittadini-specialmente donne- o imporre un contrassegno che identifichi coloro che considerano il Corano non Il Libro, ma un libro. Tutto vero e chiunque visiti Kabul potrebbe averne una conferma, in special modo per quanto riguarda la condizione della donna, relegata ai margini della società. Ma al tempo stesso questo stereotipo che dipinge i Taleban come dei rozzi trogloditi invasati di Dio (o “drogati” di religione, riferendoci alla famosa frase di Marx), viene a cadere una volta che ci si allontana dalla città. Come accade nei regimi assolutistici, la capitale rappresenta la vetrina dell’ideologia di regime che si vuole offrire al mondo, così come Mosca lo era per l’URSS o Pyongyang lo è per la Corea del Nord. Il dogmatismo teocratico dell’Emirato Islamico, a Kabul diviene legge assoluta. La vita degli abitanti è scandita non tanto dai proclami del Mullah Omar, quanto da quelli del Ministero della Promozione e della Virtù, il quale si assicura che tutti gli aspetti del vivere quotidiano siano coerenti con le affermazioni del Corano. Le prigioni della città sono piene di persone giudicate secondo la ferrea legge islamica, la sharia, dalla quale nessuno, neppure i bambini, possono esimersi di seguirla. Per le donne c’è un istituto di pena appositamente riservato del quale si sa poco o nulla e dove, fino ad ora, nessuno è mai riuscito ad entrare. In questo campo, più di Amnesty International e delle altre organizzazioni di diritti umani, che per le ovvie limitazioni di accesso nel Paese, non riescono neppure a quantificare esattamente il numero di prigionieri, sono attive le duemila donne del RAWA (Revolutionary Association of the Women of Afghanistan). Dalle loro sedi pakistane hanno lanciato una campagna a favore dell’emancipazione della donna particolarmente osteggiata dal regime di Kabul, pubblicando anche una serie di resoconti sulle punizioni inflitte dai Taleban a chi cerca di ribellarsi ai loro diktact. Eppure, nonostante tutto questo, Kabul, che durante i quattro anni di governo Rabbani-Massud (1992-1996) è stata devastata da una sanguinosa guerra civile costata trentamila morti, con i Taleban è riuscita a raggiungere una relativa pace. “E’ vero, le donne, che in questa città amano particolarmente la vita mondana, sono oggi costrette in casa e ad indossare il burqa. Ma durante il governo dei mujahedeen (Rabbani, ndr) le violenze e gli abusi sessuali erano all’ordine del giorno.” afferma un esponente della ONG svedese SCA (Swedish Committee for Afghanistan). Nel frattempo, però, l’ospedale di Emergency a Kabul continua a rimanere chiuso perché le autorità taleban preferiscono veder morire i loro soldati feriti piuttosto che farli curare dalle donne. I carri armati oggi sparano lungo i fronti settentrionali, dove il governo deposto di Rabbani, alleatosi con l’antico nemico Dostum, ha fondato l’UNIFSA (United National Islamic Front for the Salvation of Afghanistan) ritagliandosi il suo pezzo di territorio, che si estende sul 10-15% della superficie dell’intero Afghanistan. Ma “la politica è guerra senza le armi” diceva Mao Zedong e il milione di abitanti di Kabul, è stato assoldato dal regime taleban per combattere su un altro fronte, altrettanto impegnativo: quello della difesa dell’ideologia islamica. Perché questa jihad possa avere successo, occorre possedere un esercito composto da combattenti su cui contare ciecamente. Ecco allora il motivo del principale cambiamento in atto a Kabul in questo periodo: un rimescolamento etnico dell’intera popolazione atto ad allontanare dalla città gli abitanti di etnia Tajika, Iraniana, Uzbeka e Hazara, sostituendoli da nuovi arrivi di etnia Pashtun. “I trasferimenti forzati sono iniziati qualche mese fa.” conferma un rappresentante di una ONG europea, “Noi ce ne siamo accorti perché alle famiglie veniva notificato l’avviso di trasferimento con una settimana di preavviso, con il pretesto di riunire i gruppi etnici afgani nelle loro zone di provenienza. Poco dopo al posto dei vecchi residenti trovavamo nuove famiglie Pashtun.”
I Taleban, in quanto nati e sviluppatisi nelle regioni meridionali del Paese abitate principalmente da Pashtun, sono considerati espressione sociale e politica di questa etnia, la più numerosa dell’Afghanistan. Grazie ai Taleban ed al Pakistan che li ha appoggiati, la classe commerciale Pashtun, che durante il governo di Rabbani e Massud, entrambi di etnia Tajika, aveva perso ogni influenza economica e politica, ha potuto rinascere. Un viaggio nelle campagne meridionali del Paese, mostra agli occhi dell’occidentale l’aspetto meno conosciuto e meno propagandato del governo Taleban: campi coltivati grazie al capillare sistema d’irrigazione costruito a suo tempo dai sovietici, forniscono cibo a sufficienza ai villaggi circostanti; scuole gestite dallo stato con la collaborazione dello SCA, frequentate anche da bambine; cooperative di donne impegnate a lavorare nascoste dal burqa che qui, a differenza di Kabul, non è l’abito imposto dai Taleban, ma l’abito tradizionale riconquistato grazie ai Taleban. “I sovietici ci avevano obbligato ad accettare la loro emancipazione: circolare a volto scoperto, lavorare nei kholkoz, ribellarci ai nostri mariti. Ma noi tutto questo non lo volevamo. I Taleban ci hanno ridato la nostra vita.” mi dice Mehmooda, una donna di circa 40 anni di cui posso solo scorgere gli occhi neri e vispi, illuminati dal sole dietro la mascherina. In cambio della pace, della relativa prosperità, del ritorno alle tradizioni (qui viste come sinonimo di dignità), Mehmooda assieme ad altri milioni di Pashtun, ha offerto fedeltà al regime del Mullah Omar, anche se oggi questo appoggio sta subendo delle defezioni. Tra i mujahedeen di Massud, ho incontrato un intero plotone composto solamente da Pashtun che hanno disertato dalle file Taleban. “ Ho combattuto i sovietici per il mio Paese, ma quando ci hanno costretto ad incendiare diversi villaggi solo perché abitati da gente di etnia uzbeka, mi sono rifiutato. E sono fuggito.” mi dice un miliziano impegnato sul fronte di Shamali. Attaccare villaggi di civili uzbeki ed incendiarli è il modo utilizzato dai Talebani per far capire al volubile generale Dostum, ex alleato dei Sovietici, ex alleato di Hekmatyar, ex alleato dei Taleban ed ora alleato di Massud, la loro ira d’ispirazione divina. “Inshah Allah”, se vorrà Allah, è la frase che viene più spesso ripetuta in Afghanistan. In nome di questo volere, sia i Taleban che i loro oppositori giustificano ogni azione, come la decisione dell’arresto dei 24 membri di Shelter Now International, ultimo atto di un contenzioso con l’Occidente e le Nazioni Unite, considerate la lunga mano degli Stati Uniti, iniziato nel 1997 dall’allora Sottosegretario al Dipartimento di Stato USA, Karl Inderfurth, che promise tre miliardi di dollari a Kabul nel caso le coltivazioni d’oppio fossero state convertite. Un rapporto dell’UN Drug Control Programme confermerebbe l’interruzione quasi totale di produzione d’oppiacei da parte Taleban, ma gli aiuti promessi per aiutare i contadini non sono mai giunti. Anzi, l’ONU ha recentemente appesantito le sanzioni. “I Taleban hanno mantenuto i loro impegni, ma non hanno mai visto un solo dollaro promesso, ricevendo in cambio un inasprimento delle sanzioni ONU.” dice un alto funzionario europeo dell’ONU a Kabul. E’ in questo contesto che si inserisce la vicenda dei Buddha di Bamiyan, distrutti solo dopo che una delegazione dell’UNESCO era giunta nella capitale afghana offrendo al governo milioni di dollari per evitare la distruzione delle statue. “I Taleban saranno criminali, ma quando qualcuno prima nega dei soldi promessi, che sarebbero serviti a scopi umanitari, poi offre quegli stessi soldi per salvare delle pietre, anche il governo più razionale di questa terra può perdere la pazienza.” spiega desolato un diplomatico di un Paese occidentale in visita a Kabul. Come si vede, in Afghanistan risposte apparentemente ovvie nascondono problemi ben più complicati. Le pressioni dell’Occidente sul regime di Kabul a cui si aggiungono i massicci aiuti militari e politici al governo dell’UNIFSA potrebbero far pensare che l’incriminazione dei volontari di SNI sia una mossa tattica per sbloccare la situazione di embargo politico e economico a cui l’Afghanistan è oggetto da diversi anni: l’estradizione degli otto cittadini occidentali e la grazia ai sedici afghani contro un allentamento dell’embargo imposto dalle Nazioni Unite.
Inshah Allah.
© Piergiorgio Pescali
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