Un uomo con una maschera sulla bocca tappata da due nastri adesivi neri a croce. Tra le mani mostra le foto di due ragazzi sudcoreani uccisi in giugno da un blindato statunitense in esercitazione nei pressi di Seoul. I soldati alla guida del mezzo sono stati assolti in novembre dal Tribunale Militare USA, scatenando l’ira di decine di migliaia di sudcoreani, scesi in piazza per protestare contro l’ennesima dimostrazione di prepotenza e arroganza statunitensi. Questo fatto, che in altri periodi avrebbe potuto risultare marginale nella vita politica della nazione, oggi sembra essere la chiave di volta che deciderà le sorti delle elezioni presidenziali in programma il 19 dicembre. Se, prima della sentenza di assoluzione, i sondaggi davano il candidato conservatore Lee Hoi-chang del Grande Partito Nazionale (GNP) nettamente in testa, subito dopo è stato il suo avversario, Roh Moo-hyun, del Partito Democratico del Millennio (MDP) a prevalere. «La gente pensa che Lee sia troppo vicino agli Stati Uniti» dice alla BBC, Hahm Sung-deuk, direttore del Korea Presidential Studies Institute. Alla luce di quanto accaduto in questi ultimi mesi, entrambe i candidati, seppur in forme assai diverse, sono oggi favorevoli ad una revisione del SOFA (Status Of Forces Agreement), il codice legale che governa le truppe USA in Sud Corea. Per recuperare voti, specialmente della fascia dei venti-trentenni che, oltre a rappresentare il 50% dei 35 milioni di elettori sono anche i più critici oppositori alla politica di Bush, il serissimo Lee si è spogliato di giacca e cravatta per vestire magliette stile hawaiane, jeans, tingendosi i capelli di marrone chiaro. La risposta di Roh è stata meno artificiale: chitarra e canzoni, per cementare la sua fama di “ribelle” e indipendente. Come tradizione, la campagna elettorale coreana si concentra più sull’estetica che sui programmi. Se, per quanto riguarda l’economia entrambe si dicono favorevoli alle riforme dei libero mercato (Lee si spinge fino a chiedere l’abolizione del limite degli investimenti stranieri), il vero punto di discussione è centrato sulla politica verso la Corea del Nord. Lee, nato in un villaggio oggi a nord del 38° parallelo, è da sempre un fautore della linea dura: «Abbiamo inseguito per cinque anni la Sunshine Policy (la politica di dialogo con Pyongyang avviata da Kim Dae Jung, ndr) per trovarci alla fine una Corea del Nord che preparava a nostra insaputa armi nucleari» ha spiegato in un dibattito televisivo. Roh, invece, balzato alla ribalta nel 1981 per aver difeso 24 studenti accusati di essere in possesso di letteratura marxista, rimane favorevole alla linea inaugurata dal dimissionario Kim: «Se blocchiamo i nostri scambi economici col Nord, perderemo i nostri legami con Pyongyang e non potremo far nulla in caso di conflitto tra USA e Nord Corea». Il vero ago della bilancia, sarà comunque quel 20% di elettorato ancora indeciso, anche se il “colpaccio” messo a segno da Roh riuscendo a garantirsi l’appoggio del potentissimo Chung Mong-joon, il vicepresidente della FIFA, potrebbe chiudere i giochi in suo favore. Ancora oggi in Corea l’eco del quarto posto ai Campionati Mondiali di calcio e della storica vittoria sull’Italia è viva nell’animo non solo dei tifosi, ma della nazione intera. Lee lo ha capito e, dopo aver fallito il tentativo di aver l’appoggio di Chung, ha giocato d’astuzia facendo comporre un inno a suo favore sulle note del tormentone cantato negli stadi dai Red Devils, i coloriti sostenitori della nazionale sudcoreana. Ironicamente, i suoi oppositori gli hanno fatto notare che il soprannome “Diavoli Rossi” era lo stesso utilizzato negli anni Sessanta-Settanta per definire in senso spregiativo i nordcoreani.
© Piergiorgio Pescali
S-21 - Nella prigione di Pol Pot
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