In questa cittadina cinese, posta sul confine dell’estremo nord della Corea, i profughi sono già parecchie centinaia. Provengono dalla valle del Tumen e dalle montagne circostanti. Molti hanno percorso diverse decine di chilometri a piedi, nutrendosi con quel poco che la natura o gli abitanti dei villaggi attraversati, offrivano loro.
Le autorità nordcoreane dapprima cercavano di fermarli, ma poi, visto che non era materialmente possibile sfamare tutti, hanno deciso di allentare i cordoni. Ora non chiedono più neppure i documenti.
I cinesi accolgono i vicini non proprio a braccia aperte, ma da qualche settimana il governo del Jilin ha provveduto a inviare generi di prima necessità per fronteggiare l’esodo. Elicotteri e pattuglie di Pechino continuano a sorvegliare la zona di confine in cerca di eventuali clandestini. Fino ad oggi hanno trovato un paio di campi a est di Tumen. Hanno circondato la zona, catturato i coreani che sono stati riconsegnati alle autorità di Pyongyang.
Avvicinarsi ai campi è impossibile. Ufficialmente non esistono e a chi chiede cosa siano quelle capanne che si vedono in lontananza, viene spiegato che appartengono a tribù di nomadi accampati temporaneamente nell’area.
Certo, qui non è come a Ji’an o Dandong, dove l’esistenza dei coreani è ammessa anche dalle autorità locali senza molto imbarazzo. Ma qui siamo a Tumen, ai confini di quella che dovrebbe divenire la zona ad economia speciale che prende il nome del fiume che la attraversa, il Tumen, appunto. Ammettere l’esistenza di profughi, e quindi la necessità di istituire infrastrutture logistiche atte ad accoglierli e sfamarli, non sarebbe certo d’incentivo per le aziende che vorrebbero investire loro capitali in questa regione, tanto più che siamo a poche decine di chilometri dalla città di Hunchun, centro industriale nevralgico della nuova area. La presenza di numerosi giapponesi è sintomo di quanto le aziende del Sol Levante siano interessate all’affare. Ma prima occorre che la situazione si stabilizzi, o per lo meno rimanga sotto controllo. E’ per questo che Tokyo, oltre ad aver istituito un apposito ufficio che segue passo passo l’evolversi degli avvenimenti in Nord Corea, ha inviato un diplomatico in pianta stabile lungo il confine sino-coreano. A Tumen le autorità cinesi non si sbilanciano e, quando dopo molte difficoltà si riesce a parlare con qualche funzionario, le risposte che si ottengono, qualunque siano le domande poste, sembrano incise su un unico disco: la situazione in Nord Corea è sotto controllo, non sappiamo se ci sono profughi, a Pyongyang c’è stato il rimpasto di governo, eccetera, eccetera. Riesco solo ad avere la conferma di indiscrezioni sentite a Dandong: Kim Jong Il avrebbe rimproverato i quadri del Partito per non aver provveduto con sollecitudine a fronteggiare la crisi. Durante un suo viaggio in provincia, sarebbe stato particolarmente colpito da quanto avrebbe intravisto dai finestrini della macchina; in particolar modo gli sarebbero rimaste impresse le scene di bambini che chiedevano cibo lungo i bordi delle strade.
La laconicità dei funzionari cinesi, oltre alla particolare posizione geografica in cui viene a trovarsi Tumen, si spiega anche con la delicatissima situazione politica del governo centrale a Pechino il quale, da una parte non desidera perdere il ruolo di interlocutore privilegiato di Pyongyang, vesti che gli permettono di ricattare economicamente Washington, dall’altra non vuole rompere il legame commerciale con Seoul, che nel 1996 ha raggiunto i 20 miliardi di dollari.
Sarà l’abilità politica e diplomatica del dopo Deng a confermare quanto la Cina peserà nel prossimo secolo negli equilibri mondiali. Ma nelle schiere della gerontocrazia cinese non si vede ancora il nuovo Chou En Lai.
© Piergiorgio Pescali
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