“E’ giusto che i più elementari diritti dei lavoratori cambogiani siano calpestati in nome del MFN?” chiede Sok Thea, studente dell’Università Reale di Phnom Penh in una lettera pubblicata dal Cambogia Daily. La Cambogia, dopo aver ottenuto dagli USA e dalla CEE lo status di MFN (Most Favourite Nation), è entrata in una fase di sviluppo preindustriale che ha portato in pochissimi mesi più di ventimila cambogiani ad abbandonare i villaggi per entrare nelle fabbriche cittadine. Il costo del lavoro bassissimo e la mancanza di leggi che tutelino gli operai locali, hanno funto da calamita verso le multinazionali, specie quelle con capitale cinese e malese, che in Cambogia han trovato un territorio vergine, libero dalla concorrenza ed un governo accondiscendente, corrotto e corruttibile.
Le condizioni a cui sono costretti i lavoratori, il 90% dei quali donne, sono intollerabili e al di sotto di ogni minima dignità umana:sette giorni di lavoro su sette a quattordici ore al giorno per trenta dollari al mese; denudamenti e percosse per chi non ubbidisce alle direttive padronali, nessuna copertura medica, assicurativa; licenziamenti improvvisi per le donne incinte, malati e chiunque non riesca a raggiungere il livello di produzione richiesto; impedimento di recarsi alle toilette senza permessi e, come se non bastasse, obbligo di prestare gratuitamente straordinari nel caso la ditta lo richieda.
Di fronte a questo sfruttamento ottocentesco, tre donne intraprendenti, Ou Mary, Om Navy e Phuong Sophon, hanno sfidato governo e multinazionali fondando, il 10 dicembre scorso, il primo sindacato cambogiano: il Free Trade Union of Workers of the Kingdom of Cambodia (FTUWKC), che dopo pochi giorni di vita ha già occupato le prime pagine dei giornali locali indicendo scioperi di massa a cui hanno partecipato 4-5.000 operai pari al 25% della forza lavoro industriale cambogiana.
Un primo sciopero ha visto i lavoratori della Garment Factory Ltd ottenere aumenti salariali da 30 a 37 dollari, tre mesi di maternità retribuita al 50% del salario, 47 ore settimanali, ulteriori incentivi per chi non perde più di 2 giorni di lavoro al mese. Immediatamente e coraggiosamente altri lavoratori hanno incrociato le braccia, contagiati da quelli che un alto funzionario del governo cambogiano ha definito essere i bacilli del democraticismo sindacale.
Attualmente è il turno della Tack Fat Garmente Cambodia, una fabbrica con sede a Hong Kong che, a quanto sembra è coinvolta nel traffico di droga e riciclaggio di denaro sporco. Il suo rappresentante, Johnny Wong rifiuta di incontrare i sindacati perché “sono organizzazioni illegali, non riconosciute dal governo e quindi senza alcun potere di negoziazione”. In appoggio alla Tack Fat è intervenuto anche Sar Kheng, co-Ministro degli Interni, che denuncia il Free Trade Union e il suo presidente Ou Mary, di essere un’emanazione del semiclandestino Khmer Nation Party dell’odiato Sam Rainsy. Affermazione, questa, che ha un fondo di verità, in quanto il KNP è l’unico movimento nel panorama politico cambogiano ad appoggiare apertamente i sindacati, concedendo loro assistenza legale e consigli. Neppure il CPP dell’ex comunista filovietnamita Hun Sen si è sbilanciato a tanto ed è questo cordone ombelicale che lega il FTUWKC al KNP che rischia di creare fratture interne: Chan Trabuth, leader di una fazione dissidente minoritaria del sindacato, afferma che “Sam Rainsy usa il sindacato per il suo partito. Pur appoggiando politicamente Sam Rainsy, noi non vogliamo avere commistioni con la politica.”
Per ora, comunque, il sindacato cambogiano ha già concluso accordi con quattro fabbriche ed il governo di Phnom Penh sta già evidenziando i primi cedimenti: non essendo riuscito, non solo a smantellare, ma neppure ad arginare il fronte delle rivendicazioni, sta mettendo in cantiere una nuova legge sulla regolamentazione del lavoro.
© Piergiorgio Pescali
S-21 - Nella prigione di Pol Pot
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