“S-21. La macchina di morte dei Khmer Rossi” è un libro indispensabile per chi vuole comprendere cosa sia accaduto all’interno del Partito Comunista Cambogiano tra il 17 aprile 1975 e il 9 gennaio 1979, quando i Khmer Rossi presero il potere nel Paese dopo un conflitto durato cinque anni. Gli autori, Rithy Panh e Christine Chaumeau, sono riusciti a riunire nell’ex prigione interrogatorio del Santebal, alcuni dei sette prigionieri sopravvissuti a Tuol Sleng e le loro guardie, i loro carcerieri, i loro torturatori. Un’operazione, questa, di enorme importanza umana e storiografica, mai tentata fino ad oggi da nessuno studioso. Il confronto, come era logico aspettarsi, è drammatico e coinvolgente. La lacerazione interna e il conflitto psicologico dei carcerieri è profondo e ben documentato dall’accurata descrizione delle movenze, delle espressioni, delle frasi che questi compiono di fronte a quelli che, tre decenni orsono, erano i loro prigionieri, i traditori della rivoluzione. Dalla parte opposta, la voglia di capire, di spiegarsi il perché di tanta sofferenza, è puntigliosa e incessante. Le domande degli ex prigionieri non lasciano scappatoie: inutile trincerarsi dietro a giustificazioni. Per loro nessuno è innocente: dal fotografo al torturatore, tutti hanno fatto della stessa macchina dispensatrice di sofferenza e morte. Poco importa se gli autori materiali delle uccisioni in massa siano stati altri: il sangue dei 16.000 giustiziati sporca tutte le mani. “Non siamo qui per giudicare, ma per capire” si legge nel libro. E’ con questo spirito che “S-21” dovrebbe essere letto. Il lettore non può non notare il travaglio umano di chi ha commesso atti orribili e non può fare a meno di comprendere quali difficoltà mentali ed emotive siano costretti a superare i carcerieri nel ripercorrere i giorni in cui lavoravano alla prigione. La ripetizione quasi maniacale del gesto di prendere il prigioniero per portarlo all’interrogatorio, di legargli i polsi con del fil di ferro, di imitare le percosse inflitte è mentalmente devastante. Tanto più che tutto quello che è accaduto, è oggi considerato sbagliato anche da chi è stato soggetto attivo. Sia da Duch, il direttore del carcere ora in attesa di processo a Phnom Penh, sia dai suoi “impiegati”, co-protagonisti del libro. Ed alla fine un pizzico di empatia scorre anche verso questi uomini che trent’anni fa, credendo ad una ricostruzione sociale per il bene del proprio popolo, hanno accettato di essere i bracci di menti diaboliche.
© Piergiorgio Pescali
S-21 - Nella prigione di Pol Pot
INDOCINA - Un libro, una saggio, una guida per chi vuole approfondire
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