Il 6 giugno 2003 il rappresentante per l’ONU, Hans Corell e Sok An per il governo cambogiano, hanno firmato un accordo in base al quale un eventuale tribunale che dovrà processare i dirigenti Khmer Rossi per i crimini commessi durante il periodo di Kampuchea Democratica, dovrà sottostare alle leggi cambogiane. Hun Sen si è sempre opposti a che i Khmer Rossi fossero giudicati da un tribunale internazionale: «Paesi stranieri stanno cercando di sfruttare l’argomento Khmer Rossi per intervenire negli affari interni della Cambogia (…) Non dobbiamo accettare che gli stranieri facciano giustizia per i cambogiani» ha detto il Premier in una intervista rilasciataci recentemente. L’allusione agli Stati Uniti è fin troppo chiara e il sillogismo, neppure troppo mascherato, che ne esce -giustizia cambogiana per i cambogiani - è evidente ed esclude ogni forma di intervento dall’esterno.
A questo punto resta da chiarire quanto possa essere equo e giusto un processo intentato in un Paese dove il potere giudiziario è diretta emanazione di quello politico e dove le associazioni preposte all’osservazione del rispetto dei diritti umani, sono bandite o, nel migliore dei casi, mal tollerate. E’ vero, comunque, che un processo equo non farebbe piacere a nessuno: sarebbero in troppi a dover dare spiegazioni sui loro comportamenti prima, durante e dopo l’avvento dei Khmer Rossi al potere. L’Occidente dovrebbe spiegare gli aiuti diplomatici, finanziari e militari dati ai Khmer Rossi dopo il 1979; Sihanouk dovrebbe convincere un’eventuale giuria obiettiva delle sue acrobatiche manovre politiche per restare aggrappato al potere, Hun Sen e Chea Sim di come abbiano aiutato Pol Pot a prendere il potere prima di defilarsi in Vietnam.
© Piergiorgio Pescali
S-21 - Nella prigione di Pol Pot
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