Non dimenticare la storia


Als die Nazis die Kommunisten holten, habe ich geschwiegen;
ich war ja kein Kommunist.
Als sie die Sozialdemokraten einsperrten, habe ich geschwiegen;

ich war ja kein Sozialdemokrat.
Als sie die Gewerkschafter holten, habe ich nicht protestiert;

ich war ja kein Gewerkschafter.
Als sie die Juden holten, habe ich nicht protestiert;

ich war ja kein Jude.
Als sie mich holten,
gab es keinen mehr, der protestierte.


Quando i nazisti vennero per i comunisti, io restai in silenzio;
non ero comunista.
Quando rinchiusero i socialdemocratici, rimasi in silenzio;
non ero un socialdemocratico.
Quando vennero per i sindacalisti, io non feci sentire la mia voce;
non ero un sindacalista.
Quando vennero per gli ebrei, non protestai;
non ero un ebreo.
Quando vennero per me, non era più rimasto nessuno che potesse far sentire la mia voce.

(Emil Gustav Friedrich Martin Niemöller; Lippstadt, 14 gennaio 1892 – Wiesbaden, 6 marzo 1984)



S-21 - Nella prigione di Pol Pot

S-21 - Nella prigione di Pol Pot
S-21; un romanzo storico, una narrazione viva e potente che porta il lettore in una struttura detentiva istituita dal regime degli Khmer Rossi, una prigione da cui pochi sono tornati, seppur segnati nel corpo e nello spirito, vivi.

IL CUSTODE DI TERRA SANTA - un colloquio con padre Pierbattista Pizzaballa

IL CUSTODE DI TERRA SANTA - un colloquio con padre Pierbattista Pizzaballa
FESTIVAL FRANCESCANO 2014 - Rimini, piazza Tre Martiri,SABATO 27 SETTEMBRE - ORE 15.00 Presentazione del libro Il Custode di Terra Santa

INDOCINA - Un libro, una saggio, una guida per chi vuole approfondire

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Protesta dell'opposizione (8.9.1998)

Ma in questo caso lo scontro sarà totale. E decisivo.
-Non sai che ognuno di noi ha la pretesa di soffrire molto più di tutti gli altri?- dice Emilio a Raffaello in una scena del libro di Honoré de Balzac, “Pelle di zigrino”.
La stessa frase potrebbe essere ripetuta a ciascuno dei tre leaders cambogiani che oggi stanno animando, in modo grottescamente melodrammatico, la vita politica e sociale della nazione.
La Cambogia sta sempre più divenendo un immenso scenario in cui potrebbe inserirsi senza forzature un romanzo dello scrittore francese: personaggi impetuosi che irrompono tumultuosamente sulla scena, degrado di moralità, ricerca sfrenata del potere abiurando ogni idea e ideologia che non sia quella del profitto, fanno da sfondo a questa triste realtà di una nazione, che un tempo, forse oramai troppo lontano, era simbolo di serenità e di felicità.
Durante la prima metà degli anni Sessanta i vicini thailandesi venivano nelle cliniche cambogiane a farsi curare; i ricchi possedevano sfarzose ville a Kompong Som (l’odierna Sihanoukville); i contadini cambogiani, pur non vivendo nel lusso, non conoscevano la miseria e lo sfruttamento latifondista che affliggevano i loro vicini Thai, Lao, Viet. I Khmer di oggi narrano che i guai iniziarono quando Sihanouk, il loro amato re Sihanouk, concedette nel 1969 l’autorizzazione ad aprire due casinò, uno a Phnom Penh e l’altro a Sihanoukville, per rimpinguare le casse dello stato: uno scandalo in una società puritana e devotamente buddhista come quella cambogiana. Per una strana coincidenza, pochi mesi dopo l’inaugurazione delle sale da gioco, Lon Nol e Sirik Matak, con il consenso della CIA, spodestarono il monarca, allora in viaggio di ritorno dalla Francia dove si era recato per cure mediche, e proclamarono la Repubblica Khmer dando inizio alla lenta e straziante agonia della nazione indocinese.
Oggi di casinò sul territorio cambogiano ve ne sono tre, di cui uno addirittura a Pailin, caposaldo dei Khmer Rossi di Ieng Sary. Non so se è una sorta di maledizione o se realmente il vizio del gioco d’azzardo riesce in qualche modo ad interferire con le vicende storico-sociali della Cambogia, ma l’apertura dei locali ha coinciso con il peggioramento della situazione interna: l’intensificarsi della guerra civile, il colpo di stato dello scorso luglio che ha allontanato dal potere Norodom Ranariddh figlio di Sihanouk (destino beffardo), ed ora i disordini scatenati da un’opposizione che si ostina a non accettare i risultati di elezioni a cui lei stessa ha deciso liberamente di partecipare, pur conoscendo perfettamente le regole del gioco. Al termine di una intervista concessami poco prima della tornata elettorale del 26 luglio, avevo chiesto a Sam Rainsy, che mi sembrava il candidato più accettabile se non altro dal punto di vista dell’immagine e della serietà, se pensasse che le elezioni sarebbero state libere e democratiche.
“No!” mi ha risposto lapidariamente. “E allora perché partecipa?” chiesi di rimbalzo. “Perché non posso osservare dall’esterno il crollo della mia nazione; devo in qualche modo impedire che gli youn (i vietnamiti) che per vent’anni hanno dilapidato la Cambogia e derubato i Khmer delle loro ricchezze, continuino a regnare indisturbati.” Accanto a lui sorrideva l’ambiziosa moglie, che molti dicono sia la vera tessitrice della politica portata avanti dal marito.
Stessa risposta, più o meno, avevo ricevuto da Norodom Ranariddh. La speranza è l’ultima a morire, si dice, ma quando anche questa è defunta, si ricorre spesso all’ultima arma che i disperati hanno a disposizione: la violenza.
Ed è esattamente quello che hanno fatto i due leaders dell’opposizione, immediatamente dopo la proclamazione dei primi risultati che davano la vittoria al Partito del Popolo Cambogiano di Hun Sen, quando di fronte alle televisioni di tutto il mondo hanno proclamato in modo antidemocratico di non voler accettare i responsi delle urne. Hun Sen non ha replicato; confidando nell’appoggio degli organismi internazionali che avevano sponsorizzato le elezioni (Unione Europea, Asean, Giappone), si è messo in disparte, lasciando saggiamente crogiolare i due oppositori. Anzi, offrendo loro un posto per un governo di coalizione nazionale, non potendo allestirne uno da solo dato che non dispone dei due terzi dei deputati dell’Assemblea Nazionale richiesti dalla legge cambogiana. “Non accetterò mai di andare al governo con un assassino” mi aveva detto un inviperito Sam Rainsy il 30 luglio scorso. “Potremmo parlarne” affermava invece Norodom Ranariddh, ribaltando come da suo copione, le sue affermazioni pre-elettorali che escludevano ogni accordo con il Partito del Popolo Cambogiano.
Ma più che far valere le loro ragioni Sam Rainsy e Norodom Ranariddh, cercano oggi di farsi compiangere, di recitare le parti delle vittime, reclamando a gran voce di essere gli obiettivi di complotti orditi da Hun Sen. Non che non abbiano motivi validi da addurre, specialmente Rainsy, che dopo essere scampato ad un attentato il 30 marzo 1997, ne ha subiti altri, l’ultimo dei quali la settimana scorsa al Ministero dell’Informazione dove stava conducendo una protesta di fronte alla sede della NEC (National Election Commission), la Commissione preposta a vigilare sulla regolarità delle elezioni. Ma le interperanze a cui sono giunti, le dichiarazioni che rasentano la xenofobia razziale sommate all’ultimo appello lanciato proprio da Rainsy che invitava gli USA a bombardare i punti nevralgici del Partito del Popolo, non hanno fatto altro che riabilitare Hun Sen agli occhi del mondo. Un gioco davvero di prestigio. Con nemici del genere il secondo Primo Ministro (l’attuale governo resterà in carica sino al 24 settembre) può di certo dormire sonni tranquilli. Neppure il mandato d’arresto emanato dallo stesso Hun Sen nei confronti di Sam Rainsy (in seguito ritirato su pressione di Lakhan Mehotra, rappresentante del Segretario Generale dell’ONU in Cambogia) e gli attacchi della polizia ai dimostranti radunatisi nella capitale per chiedere le dimissioni di Hun Sen, sono riusciti a porre in pericolo la popolarità dell’ex Khmer Rosso presso le diplomazie asiatiche e europee. Le quali sono preoccupate per la piega che sta prendendo la crisi cambogiana perché giustifica appieno le critiche mosse da più parti: inutile indire elezioni se nel Paese non vi è una classe politica che rifiuta di accettare e rispettare le regole della democrazia. “Per voi occidentali democrazia significa avere in mano una scheda su cui sono stampati il numero maggiore di simboli di partiti e poter votare uno di essi. In realtà il processo che porta il popolo all’esercizio del potere è assai più lungo e complesso e parte proprio dai rappresentanti che andranno a sedersi nell’Assemblea Nazionale. Vi sembra che questi siano degni di proporre la democrazia in Cambogia?” mi aveva chiesto provocatoriamente Khieu Samphan pochi giorni dopo le elezioni. La sua domanda è stata davvero profetica; inutile rispondere alla luce dei fatti odierni. Ma se oramai nessuno più in Cambogia si preoccupa più di tanto dell’ala dura dei Khmer Rossi, considerata allo sbando, ci si chiede cosa faranno i Khmer Rossi “rientrati” nelle file governative, specialmente quelli di Pailin. E’ da notare che questo distretto elettorale è stato l’unico in tutta la nazione dove ha vinto il Partito di Sam Rainsy, ma è anche il distretto da dove Ieng Sary ha lanciato il suo famoso monito poco prima delle elezioni: “Qualunque sia l’esito delle votazioni, il Movimento Unito di Democrazia Nazionale (il partito fondato da Ieng Sary che raccoglie i Khmer Rossi della zona) difenderà il vincitore. Anche a costo di scendere in campo con le armi.” Resterà da vedere se, in caso di una recrudescenza della guerra civile, i Khmer Rossi di Pailin rispetteranno la scelta fatta nelle urne, o seguiranno il loro leader. L’asso nella manica l’ha comunque Hun Sen, al quale è fedele la maggior parte delle Forze Armate Reali Cambogiane, i cui generali dirigono la politica nazionale da dietro le quinte. Dopo il colpo di stato di luglio e l’eliminazione della maggior parte dei generali membri del Funcinpec, il partito di Ranariddh, il peso politico del PPC all’interno dei ranghi militari si è fatto più pesante. In caso di degenerazione della crisi, saranno i generali a decidere ancora una volta, le sorti della Cambogia.

© Piergiorgio Pescali

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