Sud Est Asiatico, trent’anni fa: il Vietnam è oramai entrato a pieno ritmo nel vortice della Seconda Guerra d’Indocina, trascinando con sé anche il Laos. Gli Stati Uniti, alleati del Sud, sono ancora ottimisti sull’esito del conflitto; il pensiero che il loro formidabile apparato militare possa essere sconfitto da alcuni rozzi contadinotti che preferiscono combattere più sul piano ideologico che su quello militare, fa sorridere i pragmatici generali del Pentagono.
Nell’ottica di Washington, per porre fine a questa guerra assurda (assurda, naturalmente, per gli statunitensi, non per i vietnamiti), basta interrompere quel cordone ombelicale che, dal Nord, alimenta di armi le basi dei guerriglieri al Sud. Nel contempo occorre stanare i Viet Cong dalle basi di retroguardia situate in Cambogia, da dove i ribelli lanciano indisturbati, i loro attacchi alle truppe governative del Sud Vietnam.
C’è un solo problema: la Cambogia dell’imprevedibile Sihanouk, non ha intenzione di lasciarsi coinvolgere nella guerra, vietando ai militari USA di varcare il confine. L’ostacolo viene però prontamente aggirato grazie alla diplomazia di Washington, che promette a Sihanouk ingenti aiuti militari e economici in cambio del ristabilimento delle relazioni diplomatiche. Il re cade nel trabocchetto e nel gennaio 1969, la Stars and Stripes inizia a sventolare nel cielo di Phnom Penh. Due mesi più tardi, il 18 marzo 1969, i bombardieri B-52 dell’US Air Force decollano, come al solito, dalle basi militari in Vietnam e in Thailandia per le missioni di routine. Una volta in volo, però, le rotte vengono cambiate, così come gli obiettivi: non più il Vietnam del Nord e le foreste il cui fogliame nasconde i “Charlie”, ma i villaggi civili cambogiani situati nei pressi del confine vietnamita, dove si ritiene i Viet Cong siano rifugiati. Forse, neppure Sihanouk era al corrente dei bombardamenti, almeno per i primi tempi. Fatto sta che per quattordici lunghi e interminabili mesi, migliaia di tonnellate di esplosivo hanno radicalmente mutato la morfologia del terreno, facendo tabula rasa di ogni villaggio, senza distinzione alcuna tra quelli che effettivamente ospitavano i guerriglieri e quelli che, per usare l’antipatico gergo militare, erano “puliti”.
E mentre il napalm bruciava decine di migliaia di innocenti vite umane, per il mondo esterno la Cambogia continuava a rimanere una nazione pacifica e felice, retta da un sovrano un poco playboy, un poco eccentrico e molto amato dal popolo.
La tattica distruttiva dei militari USA non sortì alcun effetto: i Viet Cong non fecero altro che mischiarsi alla popolazione civile, spostando le loro basi ancor più all’interno del Paese, mentre il sentimento antiamericano tra i contadini khmer, cominciava a convogliare flussi di nuove reclute nel movimento dei Khmer Rossi, sino ad allora incapace di creare grossi problemi al governo reale. A nulla valsero gli accorati appelli alla pace lanciati dai missionari e dai monaci buddisti presenti in Cambogia, che, con estrema lungimiranza, presagivano ciò che sarebbe accaduto. Il 18 marzo 1970, esattamente un anno dopo l’inizio dei bombardamenti, un colpo di stato organizzato dalla Cia, esautorò Sihanouk, ponendo a capo del nuovo gabinetto il corrotto e incapace Lon Nol. Iniziava l’ultimo, drammatico, atto della guerra in Cambogia, che nel giro di soli cinque anni avrebbe portato i Khmer Rossi al potere.
L’ultima immagine che mi torna in mente dei giorni immediatamente precedenti l’ingresso dei nuovi vincitori nella capitale, è quella di un ambasciatore americano, John Gunther Dean, che trafelato sale su un elicottero, mentre i Marines allontanavano brutalmente una folla di disperati cambogiani che premevano per partire.
Gli USA avevano fatto la loro parte creando l’inferno, ora ai cambogiani spettava spegnere le fiamme.
© Piergiorgio Pescali
S-21 - Nella prigione di Pol Pot
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