Non dimenticare la storia


Als die Nazis die Kommunisten holten, habe ich geschwiegen;
ich war ja kein Kommunist.
Als sie die Sozialdemokraten einsperrten, habe ich geschwiegen;

ich war ja kein Sozialdemokrat.
Als sie die Gewerkschafter holten, habe ich nicht protestiert;

ich war ja kein Gewerkschafter.
Als sie die Juden holten, habe ich nicht protestiert;

ich war ja kein Jude.
Als sie mich holten,
gab es keinen mehr, der protestierte.


Quando i nazisti vennero per i comunisti, io restai in silenzio;
non ero comunista.
Quando rinchiusero i socialdemocratici, rimasi in silenzio;
non ero un socialdemocratico.
Quando vennero per i sindacalisti, io non feci sentire la mia voce;
non ero un sindacalista.
Quando vennero per gli ebrei, non protestai;
non ero un ebreo.
Quando vennero per me, non era più rimasto nessuno che potesse far sentire la mia voce.

(Emil Gustav Friedrich Martin Niemöller; Lippstadt, 14 gennaio 1892 – Wiesbaden, 6 marzo 1984)



S-21 - Nella prigione di Pol Pot

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S-21; un romanzo storico, una narrazione viva e potente che porta il lettore in una struttura detentiva istituita dal regime degli Khmer Rossi, una prigione da cui pochi sono tornati, seppur segnati nel corpo e nello spirito, vivi.

IL CUSTODE DI TERRA SANTA - un colloquio con padre Pierbattista Pizzaballa

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Myanmar: il futuro sarà una dittatura democratica?

Le elezioni Myanmar hanno decretato la vittoria della Lega Nazionale per la Democrazia (LND), il partito fondato dal generale Tin Oo assieme ad Aung San Suu Kyi. Eppure, a leggere e a sentire i commenti degli organi di stampa internazionali, quasi nessuno applaude all’LND; tutti attribuiscono il successo elettorale alla sola Aung San Suu Kyi, la quale, seppur membro di spicco del partito, è pur sempre UNA delle tante figure del movimento.

Aung San Suu Kyi (photo Suzanne Plunkett / PA)

Attribuire la vittoria politica di un intero partito, formato da milioni di membri ed elettori, ad una sola persona è una pericolosa deriva verso un culto della personalità di cui Suu Kyi sicuramente trarrà vantaggio per la sua futura carriera politica. Non per nulla la Lady, come ancora oggi viene chiamata, non ha mai voluto diluire la propria notorietà, specie all’estero, al fine di favorire la collettività politica del suo partito.
Nonostante che fossero in molti allora a dubitarne, dal 2010 il Myanmar sta faticosamente, e con successo, cercando di uscire da una dittatura militare feroce ed oppressiva, ma rischia di scivolare verso una seconda “dittatura democratica”. Aung San Suu Kyi ha oramai perso gran parte di quell’immagine di eroina e difensore dei diritti umani di cui si era circondata durante il suo ventennale periodo di arresti domiciliari (1990-2010). Si è rifiutata, e continua a rifiutarsi, di riconoscere il dramma dei Rohingya, ha appoggiato, “per onore di patria” come ha lei stessa spiegato, la decisione del governo di allontanare a forza migliaia di contadini nelle regioni minerarie in concessione a compagnie cinesi, ha pubblicamente elogiato il tatmadaw (le forze armate birmane) per le loro azioni militari nel Kachin e, ultimamente, ha sibillinamente annunciato che, se non potrà essere eletta presidente del Myanmar, coprirà una posizione superiore a quella presidenziale, non specificando, però, a quale figura si riferisse, visto che la costituzione non prevede una carica simile.
Gli organi di stampa di tutto il mondo hanno sempre sottolineato l’ingiustizia di una costituzione che impedisce alla Lady di candidarsi alla presidenza perché i suoi figli hanno passaporto britannico; non hanno mai, però, precisato che l’articolo in questione non è stato introdotto dalla giunta militare, ma era già presente nella vecchia costituzione democratica del 1947, a cui spesso la stessa Suu Kyi fa appello per un ritorno alla democrazia nel Paese.
Nessuno, inoltre, ha mai spiegato (o voluto spiegare) che il tatmadaw è l’unica forza interetnica presente in Myanmar e, come tale, rappresenta ancora l’unico elemento di unione di un Paese altrimenti diviso in 135 nazionalità differenti e condannato al dissolvimento. Le diplomazie asiatiche e, in molti casi, anche quelle occidentali, se da una parte hanno sempre condannato la giunta militare, dall’altra l’hanno aiutata a restare al potere rafforzando le forze armate, al fine di non creare un nuovo Vietnam. Il crollo del Myanmar, infatti, darebbe vigore a spinte secessioniste che metterebbero a repentaglio l’esistenza della Thailandia, del Laos, del Vietnam, senza contare che le minoranze dello Yunnan cinese, a cui molti gruppi etnici dislocati nel Myanmar sono legati, non perderebbero l’occasione per far valere le loro richieste verso Pechino. L’intero Sud Est Asiatico si destabilizzerebbe con conseguenze devastanti non solo in Asia, ma su tutto il pianeta.
Aung San Suu Kyi, figlia, non dimentichiamolo, del generale Aung San, fondatore del tatmadaw ed egli stesso colpevole di crimini efferati nei confronti di diverse minoranze etniche, è ben consapevole del ruolo indispensabile dei militari per il futuro della nazione e per questo non ne ha mai chiesto il ritiro completo dalla vita politica (del resto il fondatore del partito di cui è presidente è un generale).
Lo stesso problema etnico, mai risolto in modo definitivo da nessun governo succedutosi dopo l’indipendenza, è un retaggio storico del colonialismo britannico. Durante la Seconda Guerra Mondiale, quando l’eroe nazionale Aung San combatteva a fianco dell’esercito imperiale giapponese ed era Ministro della Guerra del governo fantoccio birmano, la maggioranza delle etnie si era schierata a fianco dei britannici. Un’onta mai perdonata da Aung San, che non ha mai voluto concedere ai gruppi etnici alcuna forma di autonomia, dando così inizio, ben prima dell’avvento dei militari al potere, alle guerre civili che ancora oggi devastano i territori di confine.
Inoltre l’India, in competizione con la Cina per lo sfruttamento delle risorse naturali del Myanmar e per i lucrosi appalti delle infrastrutture di cui il Paese ha estremo bisogno, ha sempre cercato di convincere il governo di Yangon (la vecchia capitale) e Nay Pyi Taw (la nuova capitale) a rafforzare il controllo alle frontiere occidentali per evitare che gli indipendentisti assamiti trovassero rifugio in territorio birmano.
Infine c’è il problema dei rohingya, 800.000 persone di fede musulmana, formalmente apolidi, il cui status di cittadinanza non è riconosciuto né dal Myanmar né dal Bangladesh. Aung San Suu Kyi ha essenzialmente abbracciato la linea politica del governo, dichiarando che i rohingya non sono cittadini birmani, ma immigrati illegali. I numerosi attacchi da parte dei rakhine buddisti verso i rohingya non hanno mai avuto alcun biasimo, né da parte di Nay Pyi Taw né da parte dell’LND che, anzi, ha rifiutato di sostenere la candidatura alla presidenza di un suo membro in quanto musulmano. Suu Kyi ha sostenuto la necessità per il Paese di conservare la cultura buddista, e questa presa di posizione ha giocato non poco nel giustificare le violenze interreligiose.
La Lega Nazionale per la Democrazia ha vinto le elezioni, ma ora il partito deve dimostrare di essere in grado di mantenere le pesanti promesse fatte durante gli anni della dittatura e sarà questa la vera grande sfida che Aung San Suu Kyi dovrà sostenere. Molti membri della Lega sono giovani pieni di ambizioni e sono entrati nel partito più per interesse personale che per il bene comune. Dal 2010 le fila dell’LND si sono ingrossate a dismisura ed è impossibile controllare in modo capillare la dedizione e la moralità di ogni membro. Sebbene la dirigenza del partito faccia di tutto per coprire le magagne, gli scandali dovuti a corruzione e nepotismo si stanno moltiplicando.
Da tempo, la nuova dirigenza dell’LND sta dando segni di insofferenza nei confronti dei leader storici e le critiche verso Aung San Suu Kyi, per il suo atteggiamento autocratico nel condurre il movimento e la remissività nei confronti del governo e dei militari, si elevano sempre più numerose.

Gli elettori si aspettano grandi cambiamenti sociali e economici, ma cosa accadrà quando si renderanno conto che ai grandi propositi non seguiranno, almeno a breve termine, i fatti?

Copyright © Piergiorgio Pescali

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