Non dimenticare la storia


Als die Nazis die Kommunisten holten, habe ich geschwiegen;
ich war ja kein Kommunist.
Als sie die Sozialdemokraten einsperrten, habe ich geschwiegen;

ich war ja kein Sozialdemokrat.
Als sie die Gewerkschafter holten, habe ich nicht protestiert;

ich war ja kein Gewerkschafter.
Als sie die Juden holten, habe ich nicht protestiert;

ich war ja kein Jude.
Als sie mich holten,
gab es keinen mehr, der protestierte.


Quando i nazisti vennero per i comunisti, io restai in silenzio;
non ero comunista.
Quando rinchiusero i socialdemocratici, rimasi in silenzio;
non ero un socialdemocratico.
Quando vennero per i sindacalisti, io non feci sentire la mia voce;
non ero un sindacalista.
Quando vennero per gli ebrei, non protestai;
non ero un ebreo.
Quando vennero per me, non era più rimasto nessuno che potesse far sentire la mia voce.

(Emil Gustav Friedrich Martin Niemöller; Lippstadt, 14 gennaio 1892 – Wiesbaden, 6 marzo 1984)



S-21 - Nella prigione di Pol Pot

S-21 - Nella prigione di Pol Pot
S-21; un romanzo storico, una narrazione viva e potente che porta il lettore in una struttura detentiva istituita dal regime degli Khmer Rossi, una prigione da cui pochi sono tornati, seppur segnati nel corpo e nello spirito, vivi.

IL CUSTODE DI TERRA SANTA - un colloquio con padre Pierbattista Pizzaballa

IL CUSTODE DI TERRA SANTA - un colloquio con padre Pierbattista Pizzaballa
FESTIVAL FRANCESCANO 2014 - Rimini, piazza Tre Martiri,SABATO 27 SETTEMBRE - ORE 15.00 Presentazione del libro Il Custode di Terra Santa

INDOCINA - Un libro, una saggio, una guida per chi vuole approfondire

INDOCINA - Un libro, una saggio, una guida per chi vuole approfondire
Per ordinarne una copia: 3394551575 oppure yasuko@alice.it
© COPYRIGHT Piergiorgio Pescali - E' vietata la riproduzione anche parziale senza il consenso dell'autore

Corea del Nord tra realtà e fantasia (Marzo 2015)

Nel 2012 il libro Fuga dal Campo 14 di Blaine Harden, che raccontava la drammatica storia di Shin Dong-hyuk, unico prigioniero riuscito a fuggire da un campo di rieducazione della Corea del Nord, ebbe un’eco mondiale e fu portato a testimonianza da numerose organizzazioni dei diritti umani sulle crudeltà commesse dal governo di Pyongyang verso i dissidenti del regime. Anche la Commissione d’Inchiesta sui Diritti Umani nella Repubblica Democratica Popolare di Corea, organismo delle Nazioni Unite, pubblicando il suo famoso rapporto del 17 febbraio 2014 fece più volte riferimento alla storia di Shin Dong-hyuk nel trarre le sue conclusioni sulla situazione dei diritti umani nel paese.[1]
Se sull’esistenza dei campi di prigionia in Nord Corea non vi è alcun dubbio, molte perplessità rimangono su ciò che avviene nel loro interno. Queste incertezze sono oggi rafforzate dalla confessione dello stesso Shin Dong-hyuk secondo cui alcune affermazioni riportate nel libro sopracitato e nel documento della stessa commissione ONU non sono reali, ma frutto della sua stessa fantasia.
Sia ben chiaro, l’efferatezza con cui Pyongyang tratta i propri cittadini considerati controrivoluzionari o socialmente pericolosi, non viene messa in discussione. Il polverone che l’ammissione di Shin ha sollevato, oltre a gettare un’ombra di discredito sui racconti dei rifugiati nordcoreani all’estero, è il modo con cui le notizie provenienti dalla Corea del Nord vengono soppesate. Nonostante da più parti si fossero avanzati forti dubbi sulla testimonianza e sulla veridicità dei fatti raccontati nel libro Fuga dal Campo 14, nessun giornalista e nessuna organizzazione aveva messo in dubbio tali affermazioni, né ci si era dati il compito di verificarne l’autenticità.
È un cliché pressoché assodato da quasi tutti i media occidentali, quello di riportare notizie più o meno fantasiose sulla nazione asiatica senza effettuare alcun riscontro. Di esempi se ne potrebbero fare a decine, a partire dalla notizia, riportata recentemente su quasi tutti i giornali e organi di stampa, della nazionale di calcio imprigionata all’indomani della finale dei Giochi d’Asia persa contro i fratelli sudcoreani, per continuare con l’imposizione alla popolazione maschile del taglio di capelli alla Kim Jong Un o all’uccisione di Jang Song Thaek da parte di una branco di cani affamati (i giornalisti più creativi hanno aggiunto che i mastini appartenevano allo stesso Kim Jong Un che li avrebbe tenuti a digiuno proprio per renderli più aggressivi).[2]
Di certo non aiuta il fatto che per interpretare le notizie provenienti dalla Corea del Nord occorre una buona dose di esperienza e di conoscenza del Paese, cosa che non si acquisisce stando seduti alle scrivanie davanti ad un computer. Inoltre entrare nella nazione asiatica risulta ancora piuttosto complicato, anche se giornalisti e fotografi possono ora visitarla con una certa facilità.
Ma allora, come è veramente questa Corea del Nord, spesso soprannominata «regno eremita»?
Ponendo da parte gli stereotipi di uno stato-prigione chiuso, refrattario ad ogni cambiamento e retto da un leader descritto come un giovincello incapace, sbruffoncello e tirannico, scopriremo una terra che, dall’inizio del XXI secolo, è soggetta a drastici e veloci mutamenti sia economici che sociali, oltreché politici.
A partire proprio da uno dei temi cui è spesso messa sotto accusa: i diritti umani.
Da almeno tre lustri le maglie del governo verso chi contesta la politica del Partito del Lavoro si sono allentate giungendo anche a rivoluzionare le regole di confinamento. Le condanne, che prima erano collettive, oggi colpiscono solo l’individuo permettendo alla propria famiglia di continuare a vivere in libertà, seppur con alcune restrizioni (non sono possibili trasferimenti in città, iscrizioni al Partito, lavorare in uffici pubblici considerati di vitale importanza per il Paese). Le stesse condizioni all’interno dei campi sembrerebbero essere migliorate, con una dieta alimentare arricchita e una maggiore flessibilità da parte dell’amministrazione carceraria nel considerare le esigenze umanitarie dei prigionieri.
La riforma penitenziaria è solo l’ultima delle azioni di riorganizzazione economica e sociale avviate da Kim Jong Il, padre dell’attuale leader Kim Jong Un, all’indomani della catastrofica crisi alimentare degli anni Novanta che avrebbe mietuto centinaia di migliaia di vittime. Gli effetti di tali cambiamenti si mostrano in tutta la loro incisività nelle città, Pyongyang e Wonsan in particolare, ma si allargano, seppur in modo più attenuato, anche nelle campagne.
La lenta, ma costante, penetrazione dell’economia di mercato ha, almeno in parte, sollevato lo stato dal gravoso impegno di rifornire i negozi e i propri cittadini di beni di prima necessità.
Il miglioramento della produzione agricola ottenuto grazie all’ammodernamento del parco macchine, ad un costante rifornimento di pezzi di ricambio e ad una riforma che tollera la vendita privata di prodotti, ha eliminato la fame da quasi tutto il Paese, anche se Pyongyang continua a sfornare dati di raccolti inferiori rispetto alla reale produttività. È un espediente, questo, per sperare di ottenere maggiori aiuti da parte dei paesi donatori.
Sino a qualche anno fa avrebbe potuto anche funzionare, ma oggi, con le riprese satellitari e un accesso più capillare nelle aree più remote del Paese da parte delle organizzazioni internazionali, il controllo si è fatto più preciso tanto che oggi in Corea del Nord si parla di malnutrizione, ma non più di morte per inedia. Merito anche dei massicci aiuti (circa 800.000 tonnellate di cibo ogni anno) provenienti principalmente da Corea del Sud, Cina e Stati Uniti.[3]
Sebbene Kim Jong Un abbia incominciato a reintrodurre il sistema di distribuzione alimentare controllato dallo stato, interrotto dal padre all’inizio degli anni Novanta, solo il 40 per cento della popolazione ne può usufruire; il resto si affida ad un «fai da te» che vede nei golmikjang, i mercati non ufficiali, ma tollerati dal governo e presenti in ogni distretto, la punta di diamante di un nuovo mercato emergente. Sulle bancarelle dei contadini un chilo di riso costa tra i 4.000 e i 7.000 won. Un prezzo esorbitante se confrontato ai 44 won al chilo fissato nei negozi dello stato, i cui scaffali, però, sono spesso desolatamente vuoti.
Il costo diverrebbe addirittura proibitivo se si pensa che lo stipendio medio di un nordcoreano è di 7.000 won al mese: 50 dollari al cambio ufficiale che si riducono a soli due dollari al mercato nero.[4]
Come sopravvivono allora i nordcoreani? Semplicemente ingegnandosi ad occupare quelle nicchie di mercato che lo stato non riesce a soddisfare. Il commercio illegale con la Cina da parte di intraprendenti nordcoreani che attraversano il confine importando merce di contrabbando, non solo non è più represso, ma è persino tollerato perché da una parte permette alla popolazione di trovare merce di prima necessità altrimenti impossibile da reperire nei negozi statali e dall’altra accorda alle guardie di frontiera lauti guadagni con le «mance» lasciate dai commercianti.
Nei golmikjang delle cittadine di frontiera la moneta di scambio è ormai lo yuan (o il dollaro, a volte lo yen), che ha soppiantato lo won: un paio di scarpe costa 250 yuan, un paio di pantaloni 80, un soprabito 200 yuan.
Nelle città (ultimamente anche in alcuni villaggi di campagna) è ormai comune vedere l’apertura di ristoranti, birrerie, caffè gestiti da famiglie o da privati ed in cui un pasto costa tra i quattro ed i cinque dollari. Quasi tutti gli ingredienti provengono dall’estero. I locali più “eleganti” servono anche cibi e bevande giapponesi o sudcoreane (a Pyongyang è stata recentemente aperta anche una pizzeria).
È la nuova economia che avanza e che permette ad una famiglia media di aumentare anche di venti volte gli introiti. Il guadagno medio di un nucleo famigliare nordcoreano è di centomila won al mese (una cameriera in uno di quei ristorantini privati guadagna 40-50 dollari al mese) ma un negozio di alimentari riesce a raggiungere anche i cinquecento dollari al mese.
Nuovi status symbol sorgono e, a testimonianza di come la nazione stia mutando, oggi non vengono più nascosti, ma addirittura ostentati. Sebbene sia impossibile comunicare con l’esterno, il numero di nordcoreani che compra telefonini è in continuo aumento, così come in aumento sono le famiglie che dispongono di frigoriferi, televisioni, radio. Lungo le strade delle principali metropoli nordcoreane non è difficile osservare adulti e ragazzi giocherellare con smartphone o farsi dei selfie. In quattro anni in Corea del Nord sono stati venduti circa tre milioni di cellulari, molti dei quali Apple o Windows (Nokia).
È tutta una classe di nuovi ricchi che sta prendendo piede nel Paese. Questo drastico cambiamento sta rivoluzionando anche l’assetto sociale e politico della Corea del Nord.
Il servizio militare, un tempo riservato all’élite e alle famiglie più legate al Partito dei Lavoratori, oggi è visto come una palla al piede perché allontana i nuovi rampolli per dieci anni dalla vita economica. Così si cerca di evitare la coscrizione obbligatoria elargendo mance agli ufficiali. Si spiega così la recente mossa del governo di includere anche le donne nella ferma militare per sopperire alla fuga di matricole.
L’improvvisa disponibilità di denaro liquido che molti si sono trovati a gestire, ha innescato la corsa agli investimenti immobiliari. In Corea del Nord la proprietà privata è tuttora proibita, ma ogni famiglia ha diritto ad un appartamento. Come fare, allora, per poter investire nel mattone? Semplice, le famiglie più abbienti ricorrono ad un espediente del tutto legale: lo scambio di appartamenti. La legge non impedisce agli inquilini consenzienti di mutuare le abitazioni concesse loro dallo stato; accade così che chi ha denaro liquido “acquisti” il baratto andando ad abitare in appartamenti centrali abitati da famiglie che accettano di cambiare locazione in posizioni meno vantaggiose. La permuta di un locale di circa cento metri quadrati in un quartiere centrale di Pyongyang costa circa 150.000 dollari che salgono a 200.000 se l’appartamento si trova nei piani inferiori (spesso gli ascensori non funzionano per mancanza di energia elettrica o perché guasti, quindi i piani alti sono i meno ambìti). Attorno a questo commercio si sono create delle agenzie che mutuano le trattative tra gli inquilini.
Ma non è solo la società a trasformarsi: anche il regime, considerato a torto monolitico e inamovibile, in questi anni ha subito e continua a subire scossoni. I repentini cambi di cariche, di ministri, l’esecuzione di importanti personalità della nomenklatura e, soprattutto, i movimenti all’interno della famiglia Kim, denotano che la leadership del Paese si sta preparando a un prossimo cambio di direzione politica. Kim Jong Un è, alla fin fine, un leader che si è dimostrato accorto e capace di governare una nazione contro tutte le aspettative che lo vedevano troppo giovane e inesperto. Due qualità (specialmente la prima) considerate fatali in una società di stampo confuciano come quella nordcoreana, dove la saggezza ed il rispetto vanno di pari passo con l’età anagrafica.
Sicuramente hanno giocato un ruolo fondamentale gli anni della sua carriera scolastica passati a Berna, che hanno permesso al leader nordcoreano di comprendere i meccanismi delle democrazie occidentali, entrare in contatto con le loro società e, soprattutto, “assaggiare” un altro tipo di mercato economico.
Forse è stata proprio questa sua formazione atipica (ma non unica; sono sempre più i nordcoreani che vengono inviati all’estero per imparare i disegni economici mondiali), a determinare un deciso voltafaccia verso la Cina a favore del nemico storico: la Corea del Sud.
L’esecuzione di Jang Song Thaek avvenuta nel 2013 e i cambiamenti ancora in atto nell’apparato del Partito sembra siano dovuti proprio all’intenzione di Kim Jong Un di sganciarsi dall’orbita cinese, la cui forza gravitazionale era rappresentata dallo zio.
Tra il 2010 ed il 2012, anni in cui Jang Song Thaek era vice della potentissima Commissione Nazionale di Difesa, la dipendenza nordcoreana dalla Cina salì dal 57% al 70% del commercio totale di Pyongyang.
Nel 2014, l’anno seguente l’eliminazione di Jang Song Thaek, il commercio tra i due paesi ha visto la prima flessione dal 2009.
Viceversa le transazioni con la Corea del Sud sono in aumento, sebbene abbiano subito notevoli variazioni a causa delle tensioni geopolitiche. Sono più di cento le aziende di Seoul che operano a nord del 38° parallelo. Molte sono insediate nella Zona ad Economia Speciale di Kaesong, lungo la linea d’armistizio del 1953, in cui sono occupati 53.000 lavoratori nordcoreani. L’alto livello di professionalità delle maestranze, la mancanza di rivendicazioni sindacali, i bassi salari (lo stipendio medio è di 150 dollari al mese) e, non ultimo, la facilità di comunicazione linguistica, sono incentivi sufficienti a convincere le aziende sudcoreane a investire a Kaesong.
Il rilassamento delle relazioni tra Pyongyang e Seoul lo si respira anche nelle case dei nordcoreani e nei golmikjang. I DVD delle soap opera sudcoreane vanno letteralmente a ruba e le autorità del Nord, sapendo che praticamente ogni casa possiede una radio ad onde corte con cui captare le trasmissioni provenienti dall’estero, non si preoccupano neppure più di trasmettere l’antiquata e retorica propaganda contro i fratelli del sud.
La volontà di Pyongyang di comprendere e ingranare il funzionamento del mercato capitalista si è resa evidente sin dal 2004, quando lo svizzero Felix Abt ha fondato la Pyongyang Business School, un istituto che ha formato funzionari ministeriali e manager nordcoreani nella prospettiva di un’apertura del Paese verso l’esterno. È stato questo uomo d’affari che, per primo, aveva posto dei dubbi sul racconto di Shin Dong-hyuk. Nessuno, allora, lo aveva ascoltato.

Copyright ©Piergiorgio Pescali



[1] UN Commission of Inquiry on Human Rights in the DPRK, A/HRC/25/CRP.1, 17 febbraio 2014, pp. 223, 229
[2] Per una lista, seppur non esaustiva, delle false notizie sulla Corea del Nord apparse su testate e televisioni nazionali, vedi il sito http://www.pescali.blogspot.it/search/label/Disinformazione
[3] Il principale donatore di aiuti alimentari della Corea del Nord è la Corea del Sud, che tra il 1995 e il 2011 ha inviato 5 milioni di tonnellate di cibo, seguita dalla Cina (3 milioni di tonnellate) e Stati Uniti (2,4 milioni ti tonnellate). Fonte FAO
[4] Il cambio ufficiale è di 139 won per 1 dollaro USA. Al mercato nero il cambio sale a 3.000-3.5000 won per dollaro USA.

Nessun commento: