Non dimenticare la storia


Als die Nazis die Kommunisten holten, habe ich geschwiegen;
ich war ja kein Kommunist.
Als sie die Sozialdemokraten einsperrten, habe ich geschwiegen;

ich war ja kein Sozialdemokrat.
Als sie die Gewerkschafter holten, habe ich nicht protestiert;

ich war ja kein Gewerkschafter.
Als sie die Juden holten, habe ich nicht protestiert;

ich war ja kein Jude.
Als sie mich holten,
gab es keinen mehr, der protestierte.


Quando i nazisti vennero per i comunisti, io restai in silenzio;
non ero comunista.
Quando rinchiusero i socialdemocratici, rimasi in silenzio;
non ero un socialdemocratico.
Quando vennero per i sindacalisti, io non feci sentire la mia voce;
non ero un sindacalista.
Quando vennero per gli ebrei, non protestai;
non ero un ebreo.
Quando vennero per me, non era più rimasto nessuno che potesse far sentire la mia voce.

(Emil Gustav Friedrich Martin Niemöller; Lippstadt, 14 gennaio 1892 – Wiesbaden, 6 marzo 1984)



S-21 - Nella prigione di Pol Pot

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S-21; un romanzo storico, una narrazione viva e potente che porta il lettore in una struttura detentiva istituita dal regime degli Khmer Rossi, una prigione da cui pochi sono tornati, seppur segnati nel corpo e nello spirito, vivi.

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Myanmar: accelerazione democratica e crisi sociali (capitolo dedicato al Myanmar del volume Asia Maior 2012), di Piergiorgio Pescali


Myanmar: accelerazione democratica e crisi sociali

di Piergiorgio Pescali








1. Introduzione: l’irreversibilità delle riforme

Nel settembre 2012, il presidente del Myanmar, Thein Sein, ha dichiarato alle Nazioni Unite che le istituzioni del paese «hanno intrapreso una via irreversibile verso la transizione democratica e dei processi di riforma» [W/PO 27 settembre 2012, «President U Thein Sein delivered an address at the 67th United Nations General Assembly»]. Durante lo stesso discorso, la massima autorità politica birmana ha avuto parole di elogio verso Aung San Suu Kyi a motivo dei «suoi sforzi per la democrazia»,  usando, ed è stata prima volta, l’appellativo di «laureata Nobel» [ibidem].
Sono, queste, solo due delle più importanti novità che hanno contraddistinto il corso politico del 2012 in Myanmar. Il governo birmano sembra abbia definitivamente abbandonato l’autoritarismo che aveva caratterizzato le amministrazioni precedenti, accettando anche il contributo di quelli che, un tempo, erano considerati acerrimi nemici: i partiti democratici e la loro ispiratrice, Aung San Suu Kyi.
Ma se politicamente ed economicamente la qualità e lo spessore delle riforme hanno superato ogni più rosea aspettativa, resta, comunque, la grande incognita della stabilità sociale. Da una parte la popolazione aspetta, se non la condanna degli amministratori che, negli anni precedenti, avevano abusato del loro potere, quanto meno un miglioramento delle condizioni di vita; dall’altra le minoranze etniche pretendono il riconoscimento dei loro diritti. Infine, nell’inverno del 2012, si sono aggiunte le rivendicazioni dei minatori del complesso minerario di Monywa, stanchi del continuo sfruttamento di cui sono stati vittime durante il periodo della giunta militare, sfruttamento che non sembra aver fine.
Saranno questi gli ostacoli maggiori che il governo sarà chiamato ad affrontare e risolvere negli anni a venire.


2. L’entrata dei movimenti democratici nell’arena politica birmana e il rischio di egemonia della National League for Democracy

L’inizio del 2012 è stato caratterizzato dalla svolta politica, seguita alla visita del dicembre 2011 di Hillary Clinton. Dopo le incoraggianti dichiarazioni a margine del viaggio del segretario di stato statunitense, il governo birmano ha voluto dare un chiaro segnale di cambiamento al fine di garantirsi la fiducia dei paesi occidentali.
Il 5 gennaio, appena tre giorni dopo aver ordinato la liberazione di 300 detenuti  politici, il parlamento ha votato a favore della legalizzazione della National League for Democracy (NLD), il partito in cui milita Aung San Suu Kyi. [PO 2 gennaio 2012, «Amnesty Granted»; UEC 5 gennaio 2012 «NLD party granted to register as political party»].
La doppia mossa, così vicina in termini temporali, è stata un piccolo capolavoro di destrezza da parte del governo di Nay Pyi Taw (la presente capitale del Myanmar). Tra i prigionieri politici liberati, infatti, figuravano il monaco buddista U Gambira, leader delle manifestazioni dei bonzi del 2007 (in seguito di nuovo incarcerato nel mese di dicembre) e numerosi membri di spicco della Generazione 88, tra cui Ko Ko Gyi. Vale la pena ricordare che Generazione 88 è il movimento che raggruppa ex studenti universitari che, nel 1988, organizzarono le dimostrazioni contro la giunta militare subendone la dura repressione. Molti di loro si rifugiarono all’estero; altri, come Ko Ko Gyi, vennero imprigionati e torturati per anni. Gli attuali leader di Generazione 88 hanno rapporti piuttosto tumultuosi con l’NLD, accusata di paternalismo e di dominare in modo troppo autoritario la scena politica dell’opposizione.
La liberazione dei detenuti politici avvenuta a gennaio, a cui ne sono seguite altre più consistenti nel corso dell’anno, serviva, dunque, a controbilanciare in senso democratico l’egemonia del partito di Aung San Suu Kyi. L’obiettivo era non solo di garantire un maggiore equilibrio politico alla nazione, ma, soprattutto, sia di dare una possibilità in più al partito di maggioranza, l’Union Solidarity and Development Party (USDP), permettendogli di recuperare voti in vista delle elezioni generali del 2015, sia di spaccare il blocco dell’opposizione antigovernativa.
La fase di democratizzazione raggiunta nel paese è comunque stata evidente nelle elezioni suppletive del 1° aprile, quando 17 partiti politici hanno corso per la conquista di 45 seggi rimasti vacanti dopo che, nel 2011, altrettanti deputati dell’USDP erano stati scelti a ricoprire cariche di ministri e viceministri all’interno del nuovo governo di Thein Sein.
Nonostante che le elezioni suppletive di aprile abbiano interessato un numero limitato di circoscrizioni, esse rappresentavano un importante segnale di come i votanti si sarebbero presumibilmente comportati in una eventuale tornata elettorale priva di filtri e censure. Gli osservatori internazionali, sebbene invitati nel paese ad appena quattro giorni dall’apertura delle urne, non hanno riscontrato segni di gravi irregolarità; un segnale incoraggiante nel processo di liberalizzazione in atto in Myanmar [EMN 7 aprile 2012, «By-Election 2012 –Election Monitoring No.1», pp. 4, 5, 6].  I risultati hanno mostrato la netta prevalenza dell’NLD, che ha conquistato 43 seggi, mentre i due seggi restanti sono stati equamente divisi tra l’USDP e lo Shan Nationalities Democratic Party [W/EBO 24 marzo - 7 aprile 2012 «Result of 1 april By-Election Held in Nay Pyi Taw, Region and States»].
La nomina di Aung San Suu Kyi, eletta nella circoscrizione di Kawhmu, una città nella regione di Yangon, ha segnato non solo una svolta epocale nella politica birmana, ma anche, anzi soprattutto, la definitiva riconciliazione tra il movimento d’opposizione e il parlamento nazionale. Accettando il seggio, inoltre, Aung San Suu Kyi ha dovuto rivedere il suo netto rifiuto di giurare su una costituzione che ha sempre dichiarato essere illegale [W/TG 2 maggio 2012, «Aung San Suu Kyi takes oath at Burmese parliament»].
La supremazia dell’NLD sui partiti, sia di governo che d’opposizione, potrebbe però rivelarsi un boomerang verso lo stesso movimento. È indubbio, infatti, che gran parte degli elettori ha votato la National League for Democracy non per i suoi ideali, ma per l’identificazione del partito con Aung San Suu Kyi. In molti circoscrizioni i candidati imposti dalla leadership del movimento, ed in seguito eletti, erano sconosciuti agli stessi votanti.
Del resto, la struttura poco democratica del partito, evidente già da tempo, si è manifestata con la crisi (l’ennesima) culminata in ottobre con le dimissioni in massa di 500 membri della sede di Pathein e con la fondazione, da parte di 130 transfughi, di un nuovo gruppo politico, il Democracy Network. [W/MT 2 Novembre 2012, «Democracy Network formed in wake of Pathein’s NLD resignations»].
Il grosso pericolo per la sopravvivenza dell’NLD, dopo il plebiscito avuto nelle elezioni suppletive, è che il partito si chiuda ancora più in se stesso, rifiutando ciò di cui avrebbe più bisogno: una profonda riforma politica e strutturale per presentarsi alle consultazioni del 2015 in una veste rinnovata e meno settaria verso le altre forze democratiche. Il gruppo dirigente dell’NLD, che si oppone ad una transizione elettorale verso un sistema proporzionale, non farebbe altro che aggravare il senso di emarginazione e di sfruttamento che pervade le minoranze etniche, la cui presenza in un  parlamento già dominato dall’etnia bamar, è fortemente limitata dall’attuale sistema maggioritario.
Infine, non va trascurato il fatto che le personalità storiche più autorevoli della Lega Nazionale per la Democrazia, si avviano sulla settantina. La stessa Aung San Suu Kyi, che è pur sempre tra i membri più giovani della dirigenza storica, nel 2015 avrà settant’anni; ma ancora non si vede un ricambio generazionale in grado di sostenere un’eventuale responsabilità governativa.
Per di più, Aung San Suu Kyi sembra più impegnata a mantenere intatta la sua icona di eroina, piuttosto che ad affrontare i problemi del paese. Un esempio, è stato la cautela nel prendere posizioni nette sulle violazioni dei diritti umani nel conflitto in atto nello stato Rakhine, una cautela che ha scalfito in modo sempre più incisivo l’immagine della leader tra le minoranze etniche.
Non è neppure piaciuto, agli imprenditori birmani, il suo intervento al World Economic Forum tenutosi a Bangkok in maggio, in cui invitava gli investitori esteri alla cautela, evitando al contempo di chiedere la completa eliminazione delle sanzioni economiche [W/BBC 1° giugno 2012, «Suu Kyi warns against ‘reckless optimism’ on Burma reforms»]. Molti uomini d’affari birmani, che avevano finanziato la campagna elettorale dell’NLD e della stessa Aung San Suu Kyi, si sono irritati per quella che hanno considerato una mancanza di riconoscenza, minacciando di ritirare il loro appoggio al partito.
È anche in quest’ottica che occorre inquadrare il successivo viaggio di Aung San Suu Kyi negli Stati Uniti, nel settembre 2012, quando, per la prima volta, ha chiesto l’annullamento delle sanzioni [W/NYT 18 settembre 2012, «Myanmar’s Opposition Leader Urges End to Sanctions»].
Colei che la stampa birmana usava chiamare la «Lady», quando il fatto stesso di pronunciare il suo nome esponeva al rischio di essere arrestati, forte dell’accresciuta popolarità (grazie anche al film di Luc Besson del 2011, che ne traccia un profilo più agiografico che storico) ha cercato di incassare l’approvazione internazionale, approfittando della revoca, da parte del governo di Thein Sein, del divieto di uscire dal paese.
I suoi numerosi viaggi all’estero, inaugurati nel maggio 2012 con la visita in Thailandia, subito seguita da un lungo tour in Europa che le ha permesso di ritirare il Premio Nobel per la Pace ricevuto nel 1991, sono stati più un successo personale che politico. Abituata, durante i lunghi anni di arresti domiciliari, a ricevere solo elogi, ora Aung San Suu Kyi deve anche saper accettare le critiche. Queste giungono sempre più numerose all’interno del suo paese e iniziano a levarsi, seppur ancora timidamente, anche all’estero [W/FP 1° giugno 2012, «It’s time for Aung San Suu Kyi to get serious about management»].


3. Il primo cambiamento della squadra di governo ed i militari

Paradossalmente, le transizioni più significative avute sino a questo momento si sono avute proprio all’interno delle forze governative. Le dimissioni del primo vice presidente Tin Aung Myint Oo, accettate il 1° luglio da Thein Sein, hanno spianato la strada ai riformisti. Vale la pena ricordare che la costituzione del 2008 ha creato due figure di vice presidenti che coadiuvano il presidente [W/IW 4 luglio 2012, «VP’s Resignation Confirmed; Replacement to be Named Next Week»].
Il tentativo di rimpiazzare il vice presidente dimissionario con un delfino di Than Shwe, l’ex generale Myit Swe, è stato sventato dopo la rivelazione che uno dei suoi figli aveva chiesto e ottenuto la cittadinanza australiana [W/IW 17 luglio 2012, «Myint Swe’s VP Bid Postponed»]. Secondo la costituzione, infatti, chi è sposato o ha figli con passaporto straniero non può ricoprire una carica istituzionale. La clausola, creata ad hoc per impedire ad Aung San Suu Kyi di divenire presidente del Myanmar in caso di vittoria elettorale, si è inaspettatamente rivoltata contro i suoi stessi ideatori.
Il ritiro di Tin Aung Myint Oo, considerato il principale rappresentante dell’ala dura dei conservatori e dei militari che avevano appoggiato le giunte precedenti, ha permesso al presidente di sostituire i funzionari dei dicasteri che più si opponevano alle riforme. Sono stati così dimessi 22 membri del governo.
Da notare che, tra i nuovi ministri designati da Thein Sein, figura anche una donna, la prima nella storia birmana: si tratta di Myat Myat Ohn Khin, ministro della Sicurezza Sociale (Social Welfare) [W/M 10 settembre 2012, «Burma has first woman cabinet member in over 60 years»].
Ma il rimaneggiamento di governo non si è limitato a rafforzare la squadra di riformisti: Thein Sein, per prevenire attacchi dall’esterno e da eventuali «falchi» presenti nella sua stessa amministrazione, si è creato uno scudo di quattro cosiddetti superministri, attirandosi le critiche di alcuni parlamentari e analisti stranieri per l’accentramento di potere esercitato da questa nuova struttura amministrativa [Bower e al. 2012, § 12, p. 8].
Soe Thane, Aung Min, Tin Naing Thein e Hla Tun, i quattro superministri, hanno ora poteri che, in alcuni casi, prevaricano anche quelli dei due vice presidenti, ponendo una grossa incognita sul reale sviluppo democratico del nuovo governo. Accanto ad essi, Thein Sein ha voluto anche il dr. Winston Set Aung, economista di fama internazionale, per dare al proprio gabinetto un’impronta più professionale e per persuadere gli investitori della solidità delle riforme. Con la nomina di Set Aung e quella del nuovo vice presidente, l’ammiraglio Nyan Tun, considerato un moderato, il rimpasto ha creato una struttura politica più agile e più affidabile sul piano internazionale, permettendo un’ulteriore accelerazione delle riforme.
I militari, contrariamente a quanto ci si poteva aspettare, hanno giocato un ruolo determinante in questa seconda fase. In un parlamento dove il 25% dei seggi spetta di diritto alle forze armate, e dove ogni legge deve essere approvata dal 75% dei parlamentari, il ruolo dei generali risulta ancora determinante. Dopo il ritiro dalla scena politica di Than Shwe e Maung Aye, i due leader militari che avevano guidato il paese dal 1992 al 2011, la posizione di vertice nelle forze armate è stata occupata dal riformista Min Aung Hlaing, il quale ha accettato un graduale ritiro dei militari dalle funzioni civili dello stato. A nulla sono valse le richieste di un ritorno in campo rivolte a Than Shwe da parte di alcuni membri dell’ala dura dell’USDP, all’indomani della disfatta nelle elezioni suppletive [W/FP 12 luglio 2012, «The latest intrigues in Burma»].
La prova definitiva di un passo indietro della vecchia guardia del Tatmadaw, l’esercito birmano, è arrivata quando, per la prima volta dal 1962, il budget militare non solo è stato portato alla Camera Bassa per la discussione, ma è stato anche diminuito del 14,4% [W/J 1° febbraio 2012, «Defence budget (Myanmar)»].
Con la riduzione d’influenza dell’USDP, il partito di maggioranza, nelle scelte del governo, l’ala politica dei militari si è infilata in un tunnel di crisi senza precedenti. Molti membri, un tempo iscritti al partito per coercizione o per convenienza, ne hanno abbandonato le file per migrare verso i lidi più sicuri dell’opposizione, in particolare nell’NLD. I finanziamenti, generosi durante il regime della giunta, si sono ridotti e, in previsione alle prossime elezioni, che si terranno tra tre anni, si restringeranno ancora più, visto che, con tutta probabilità, sarà difficile, per l’USDP, ottenere lo stesso numero di seggi di cui attualmente dispone. Il partito può ancora contare su una cospicua rendita proveniente dalle proprietà terriere, commerciali ed industriali, ma molte di queste, specie negli ultimi due settori, hanno visto i profitti crollare negli ultimi due anni.
Come se non bastasse, i singoli finanziatori, uomini d’affari birmani e imprese legate ai militari, sempre con più frequenza hanno scelto di giocare la futura carta vincente, sponsorizzando l’NLD. L’obiettivo, in questo caso, è quello di ottenere un sicuro biglietto da visita per accaparrarsi lucrose joint venture con le aziende straniere.


4. Riforme economiche e conflitti sociali

Le riforme economiche messe in atto dal governo, non hanno ancora dato i risultati sperati, anche se già si parla del Myanmar come della nuova «tigre» asiatica [W/TD 31 marzo 2012, «Burma: Asia’s Next Tiger Economy?»].
Sebbene la crescita media del PIL degli ultimi quattro anni si sia assestata attorno al 5,5% [ADB, 2012, p. 6], la popolazione che vive sotto la linea di povertà (1,25 $ al giorno) è ancora il 25,6% del totale [ADB 2012, p. 2]. L’Indice di Sviluppo Umano pone il Myanmar al 149° posto, superato anche dal Bangladesh e dall’Angola, oltre che da tutti i paesi dell’ASEAN, tra cui il Laos [UNDP 2012, p. 129].
Lo sviluppo economico prospettato nei prossimi anni per la nazione potrebbe creare tra la popolazione l’aspettativa di un accrescimento del benessere individuale, che sovrasta le reali possibilità del governo. Inoltre, gli accordi politici tra Thein Sein e Aung San Suu Kyi hanno indotto alcuni gruppi dell’opposizione a sentirsi traditi dalla loro stessa leader, aumentando il disorientamento verso il nuovo corso.
La combinazione di queste insoddisfazioni economiche e politiche, a cui, sul lato diametralmente opposto, si aggiunge una maggiore libertà di espressione, di coalizione ed un allentamento del controllo sociale da parte  del governo, hanno creato un humus adatto alla proliferazione di movimenti radicali, che reclamano di farsi carico dei diritti degli strati più emarginati della popolazione. I conflitti sociali aumentano di pari passo man mano che le riforme avanzano, e questo potrebbe indurre il governo a rallentare il processo di riorganizzazione dello stato.
La legge sulle organizzazioni sindacali, entrata in vigore il 9 marzo, ha rivoluzionato il mondo del lavoro birmano, permettendo la creazione di associazioni sindacali indipendenti ed il diritto allo sciopero dei dipendenti [W/PO 9 marzo 2012, «Date for labour Organization Law to take effect set»]. La fondazione di quasi 200 movimenti sindacali, la maggior parte dei quali composti da poche decine di lavoratori, ha riaperto il dibattito sulla possibilità che l’ingresso di elementi conservatori, massimalisti o nazionalisti etnici nei partiti, possa far deragliare il corso politico del governo. Negli anni Trenta, in un periodo di transizione simile a quello degli ultimi due anni, i nazionalisti birmani avevano trasformato i sindacati in movimenti di lotta politica, schierati contro il potere coloniale; oggi la storia si potrebbe ripetere ai danni del governo di Nay Pyi Taw. Ciò spiega perché le autorità locali abbiano deciso di intervenire in modo violento e repressivo nei confronti dei manifestanti alle miniere di Monywa, ciò che ha conferito peso alle critiche di chi ancora non era convinto della missione riformatrice di Thein Sein.
Il complesso minerario di Monywa, nella regione centrale di Sagaing, appartiene alla Union of Myanmar Economic Holding Limited (UMEHL), uno dei due principali conglomerati di proprietà delle forze armate birmane, e alla cinese Wanbao, una sussidiaria del gruppo Norinco, nelle mani dei militari cinesi.
I lavoratori da tempo denunciavano il sistema di sfruttamento inumano adottato dalla dirigenza, che utilizzava la manodopera privandola dei più elementari diritti sindacali. Solo alla metà del 2012, però, la protesta si è ampliata a livello nazionale, per poi divenire un caso internazionale. La ragione per cui questa vicenda è balzata alla ribalta delle cronache di tutto il mondo è che essa rappresenta un vero e proprio esame che governo e opposizione devono affrontare per saggiare la loro abilità nel confrontarsi con le reali esigenze della popolazione.
Il motivo del contendere ricalca da vicino quello che era accaduto per la diga di Myitsone nel settembre 2011 [AM 2011, p. 207]. Al fine di ampliare l’attività di estrazione del rame e di sviluppare un progetto da un miliardo di dollari, la Wanbao e la UMEHL hanno chiesto e ottenuto la confisca di 31,5 chilometri quadrati di territorio circostante e il trasferimento coatto degli abitanti di 26 villaggi.
A differenza di quanto accaduto a Myitsone, dove lo stesso presidente Thein Sein aveva annullato il progetto, provocando le reazioni della Cina, a Monywa i manifestanti sono stati duramente percossi dalle forze di polizia, anche se, almeno apparentemente, il governo centrale non sembra responsabile dell’azione violenta. A fianco dei dimostranti sono scesi in campo attivisti dei diritti umani, monaci buddisti e la dirigenza di Generazione 88. Sembra che il nuovo arresto di U Gambira, avvenuto il 1° dicembre, sia legato indirettamente alle dimostrazioni di Monywa, secondo quanto riferito da Daw Ray, madre del religioso [W/M 9 dicembre 2012, «Campaign calls for candlelight vigils for U Gambira»].
Lo stesso giorno del trasferimento di U Gambira nella prigione di Insein, il presidente formava una commissione d’inchiesta per indagare sull’operato della polizia [PO 1° dicembre 2012, «Formation of Investigation Commission»]. A capo del comitato, Thein Sein ha nominato Aung San Suu Kyi; una mossa di fiducia verso la nuova parlamentare, ma anche un astuto espediente per coinvolgere il movimento democratico in questioni concrete e spinose.
A Monywa, Aung San Suu Kyi è stata costretta a confrontarsi sul campo con le necessità della politica e della ragion di stato. Invece di appoggiare senza condizioni il movimento di protesta, come avrebbe fatto durante gli arresti domiciliari, ne ha difeso le ragioni, aggiungendo, però, che occorre raggiungere un compromesso per onorare gli impegni precedentemente presi dal governo con la controparte cinese [W/HP 1° dicembre 2012, «Myanmar’s Suu Kyi shows pragmatism»]. La presa di posizione di Suu Kyi non è piaciuta agli esponenti di punta delle associazioni in difesa dei diritti degli abitanti della regione, che hanno immediatamente contestato la leader democratica. È quindi alquanto singolare che, appena due giorni dopo le polemiche suscitate dalle parole di Aung San Suu Kyi, la composizione della commissione d’inchiesta sia stata riveduta e 14 dei suoi 30 componenti siano stati costretti alle dimissioni. Tra i membri rimossi figurano U Khin Maung Swe, del National Democratic Force (NDF), il partito che nel 2010 si è staccato dall’NLD per partecipare alle elezioni generali; U Myo Nyunt, segretario generale del Democracy and Peace Party (DPP); lo scrittore Maung Wuntha; e, infine, i leader del gruppo Generazione 88, Ko Ko Gyi e Min Ko Naing [PO 3 dicembre 2012, «Reconstitution of Investigation Commission»]. Le continue illazioni sul coinvolgimento della stessa presidente della commissione nella destituzione di alcuni di questi membri hanno indotto Ko Ko Gyi a rilasciare una dichiarazione in cui confermava la piena fiducia ad Aung San Suu Kyi [W/MMM 4 dicembre 2012, «Ko Ko Gyi Says We’ll Mediate in the Letpadaungtaung Disputes»].
La vicenda di Monywa, a prescindere da ogni altra considerazione, è importante per capire come il Myanmar stia cercando di percorrere la cosiddetta «road map to democracy», imboccando vie ancora poco esplorate nell’area geopolitica asiatica.
Mentre, infatti, paesi come Cina e Vietnam hanno sviluppato la propria economia senza sostanzialmente mutare l’assetto politico del paese, altri, come l’Indonesia, hanno preferito procedere in senso inverso, anticipando le riforme politiche rispetto a quelle economiche. Il Myanmar sta portando avanti contemporaneamente entrambe queste metamorfosi, divenendo un laboratorio unico nel suo genere, non solo in Asia.
La liberalizzazione dei sindacati, l’abolizione della censura, la libertà di espressione e di sciopero fanno parte non solo di un piano di sviluppo politico, ma anche economico e sociale, che è stato ideato con l’occhio rivolto più all’esterno che all’interno del paese.
La fine delle sanzioni internazionali, assieme al tentativo di attrarre gli investimenti stranieri, sono i principali obiettivi che il governo si è posto nel continuare a sospingere il treno delle riforme. Il maggiore ostacolo, però, sembra essere proprio questo: riuscire ad evitare un disastroso deragliamento dovuto non tanto al ritorno dei conservatori (cosa, del resto, poco probabile), ma all’incontrollata velocità nel mutamento socio-economico, provocata dal caotico susseguirsi dei decreti di liberalizzazioni.
Non sembra che Thein Sein in questo processo abbia seguito una linea programmatica ben precisa; sembra, invece, che abbia cercato di assecondare tutte le richieste che sono pervenute dai governi occidentali e dagli Stati Uniti al solo fine di indurli a cancellare le ultime sanzioni rimaste, con l’obiettivo dia portare investimenti e valuta pregiata entro i confini nazionali.
Una delle prime mosse volute dal gabinetto birmano per conquistare la fiducia dei mercati mondiali è stato il deprezzamento del kyat, imposto dall’FMI a partire dall’aprile 2012. Questa inaugurazione di interventi diretti sull’economia birmana da parte di istituzioni straniere, oltre a sopprimere il mercato nero, ha creato i presupposti per smantellare i monopoli dei grandi conglomerati statali [IMF 2012]. Con un cambio di 820 kyat per dollaro (contro il precedente cambio ufficiale a 5,35), le imprese dello stato non potranno più calcolare le importazioni con un tasso simulato e bugiardo che le avvantaggiava rispetto alle aziende private. Queste, infatti, per procurarsi valuta pregiata e acquistare merci all’estero, erano prima obbligate a comprare prodotti locali (per lo più da società statali) ed esportarli.
Fino a pochi anni fa, i tre centri di potere economico del paese erano i militari, il partito che li rappresentava (l’USDP) e gli uomini d’affari vicini ad essi; in tutto una ventina di famiglie controllava il sistema economico di un’intera nazione di 60 milioni di abitanti. La ristrutturazione di Thein Sein ha progressivamente eroso il potere di questa triade, ma nessuno dei tre soggetti è sembrato in grado di porre seri ostacoli ai piani del governo. La triade, infatti, ha preferito defilarsi in due modi: nel primo caso, pur dovendo rinunciare ad ulteriori facili arricchimenti, ha pur tuttavia mantenuto intatte le ricchezze accumulate; nel secondo caso ha offerto le proprie risorse ad Aung San Suu Kyi ed al suo partito.
I due gruppi economici principali del Myanmar, la Union of Myanmar Economic Holding Limited (UMEHL) e la Myanmar Economic Coprporation (MEC), entrambe di proprietà dei militari, si sono così trovate a fronteggiare una nuova realtà. Obbligati a pagare le tasse (in precedenza ne erano esentati), a confrontarsi alla pari con altri concorrenti, privi di personale competente, i due colossi si sono ritrovati con le gambe d’argilla. La cancellazione dello sviluppo della miniera di rame di Monywa obbligherebbe la UMEHL e lo stato birmano a pagare penali esorbitanti, rischiando di mandare in fallimento l’intero conglomerato, con il conseguente licenziamento di migliaia di lavoratori. Questo potrebbe poi comportare una pericolosissima reazione da parte dei generali e del loro entourage, che dalla società imprenditoriale hanno ricavato milioni di dollari e che, ovviamente, desidererebbero continuare a ricavarne altrettanti.
La revoca dei monopoli, iniziata il 30 marzo 2011, ha già privato i militari di ingenti entrate, e nessuno, neppure l’opposizione parlamentare, ha voluto rischiare di vedere insorgere i generali, infierendo ulteriormente sui loro privilegi, specialmente in vista del fatto che i prossimi tre anni, fitti di importanti appuntamenti internazionali, saranno in ogni caso difficili.
Nel 2013, difatti, il Myanmar ospiterà i Giochi del Sud-est asiatico, mentre nel 2014 presiederà l’ASEAN, preparandosi per l’entrata in vigore della Comunità Economica dell’ASEAN, prevista per il 2015.
La decisione di evitare di infierire pesantemente sui due colossi del Tatmadaw, almeno sino a quando il nuovo assetto della nazione si sarà stabilizzato, ha reso necessario trovare altri campi di intervento economico,che rendano più efficiente il sistema. Questo, naturalmente, non significa che le imprese parassite, di proprietà delle forze armate, non potranno subire drastici ridimensionamenti; ma questi dovranno tenere conto di diversi fattori di stabilità interna, tra cui la necessità di cooperazione dell’esercito nel controllo delle aspirazioni secessioniste delle varie etnie.
Più volte Thein Sein ha insistito sulla necessità di investimenti internazionali nel campo delle telecomunicazioni, dell’energia e dei trasporti. Tuttavia, la mancanza di tecnici competenti e di professionalità in un contesto in cui sono ancora presenti intatti i gangli burocratici, figli della corruzione, tiene ancora lontano i capitali esteri.
Dopo l’incertezza causata dalle elezioni del 2010, quando gli investimenti stranieri erano scesi a 450 milioni di dollari, la maggior incisività delle riforme ha riportato l’afflusso di capitali ai livelli del 2009, raggiungendo, nel 2011, gli 850 milioni di dollari [UNCTAD 2012, §7.1.2, p. 348]. I settori in cui si è riscontrato maggior interesse sono quelli energetici (46,01% degli investimenti stranieri totali) e dell’estrazione petrolifera e del gas naturale (34,22%), seguiti a distanza dal settore minerario (6,79%), dal manifatturiero (4,52%) e dall’industria turistica (3,29%) [W/DICA 31 (sic) novembre 2012, «Foreign Investment of permitted enterprises as of 31(sic)/11/2012 by sector»].
Per attrarre risorse finanziarie dall’estero, Thein Sein stesso ha voluto una revisione più liberale della legge per gli investimenti stranieri, che, oltre ad eliminare il limite del 49% di compartecipazione di una ditta estera nelle joint venture porta a cinque anni il periodo di esenzione erariale. D’altra parte, la stessa legge obbliga le compagnie, dopo i primi cinque anni di presenza sul territorio, ad assumere il 25% del proprio personale specializzato tra i cittadini del Myanmar, per poi elevare tale quota sino a raggiungere il 75% dopo 15 anni [UoM 2 novembre 2012, «The Foreign Investment Law»].
La nuova normativa dovrebbe servire anche a diversificare la provenienza dei capitali. Attualmente, infatti, la metà degli investimenti è cinese (49,52% tra Repubblica Popolare e Hong Kong), il 23,09% tailandese e il 7,17% sud-coreano [W/DICA 31 (sic) novembre 2012, «Foreign Investment of permitted enterprises as of 31(sic)/11/2012 by country»].
La Cina, oltre ai progetti idroelettrici già in corso, ha iniziato a costruire un oleodotto e un gasdotto che porterà idrocarburi dal porto di Kyaukpyu, sull’Oceano Indiano, a Kunming. Sempre la Cina sta costruendo una ferrovia ad alta velocità che, quando sarà terminata, permetterà il collegamento diretto tra Pechino e Yangon. La Thailandia ha, invece, iniziato a sfruttare i giacimenti off-shore di Dawei con un megaimpianto multifunzionale che, con un costo di 8 miliardi di dollari, prevede la realizzazione di un centro petrolchimico, di un porto per petroliere, di una strada e, infine, di una ferrovia che collegherà l’Oceano Indiano con la costa vietnamita del Mar Cinese Meridionale. Il complesso, a cui si aggiungeranno quartieri residenziali, occuperà un’area di 100 chilometri quadrati con il rischio di sconvolgere l’intero ecosistema ambientale e culturale della zona [W/DDC].


5. La voglia di Occidente, la voglia di Myanmar

L’Europa e gli Stati Uniti non vogliono stare a guardare: mentre altri stati stanno saccheggiando le immense ricchezze naturali del Myanmar; le imprese occidentali, già dilaniate dalla crisi, scalpitano per accaparrarsi la loro parte di bottino.
Nell’aprile 2012, la Comunità Europea ha annunciato la sospensione delle sanzioni in vigore contro Nay Pyi Taw [W/EU 23 aprile 2012]. Cinque giorni dopo, il 28 aprile, Catherine Ashton, ministro degli Esteri della Comunità Europea, ha inaugurato l’ufficio di rappresentanza europeo a Yangon alla presenza di Aung San Suu Kyi e di U Myint Swe [W/EU s.d.].
Da parte loro gli Stati Uniti sono stati più cauti, ciò che li ha portati ad adottare una politica contraddittoria. Infatti, il 18 luglio, appena sei giorni dopo aver autorizzato gli investimenti di imprese statunitensi in Myanmar, il Comitato Finanziario del senato degli USA ha chiesto una proroga di tre anni al bando sull’importazione dei prodotti birmani, in scadenza nel 2012 [W/USDT 11 luglio 2012, «Burmese Sanctions Regulations – Authorizing New Investments in Burma»; W/USSCF 18 luglio 2012, «Description of the Chairman’s Mark to (…) approve the renewal of import restrictions contained in the Burmese Freedom and Democracy Act of 2003», § C, p. 4].
Il viaggio di Aung San Suu Kyi e di Thein Sein alle Nazioni Unite ed i successivi colloqui con Hillary Clinton, durante i quali la stessa leader dell’opposizione birmana ha chiesto la rimozione dell’embargo, hanno convinto l’amministrazione statunitense a togliere anche le ultime restrizioni, a partire dalla fine del novembre 2012 [W/USDT 16 novembre 2012, «Burmese Sanctions Regulations – Authorizing the Importation of Products of Burma»].
Con questi accordi, diverse multinazionali hanno già iniziato ad espandersi nel mercato birmano, o hanno pensato di farlo nel prossimo futuro: Coca Cola, Pepsi, General Motors, Omnicom, Caterpillar, Chevron, General Electric, BP, Shell, Rolls Royce sono solo alcune delle compagnie che hanno già adocchiato l’ «affare Myanmar» e che hanno inviato delegazioni nel paese per sondare la possibilità di concludere intese commerciali.
La visita del presidente Obama (19 novembre 2012) è stata il definitivo riconoscimento degli sforzi compiuti dal nuovo governo asiatico verso una completa democratizzazione del paese.
 Nel frattempo, mentre si profila la massiccia penetrazione del capitale internazionale, con tutte le conseguenze negative che un ingresso incontrollato potrebbe avere a livello sociale, il Myanmar ha iniziato a subire un altro tipo di irruzione; meno aggressiva, se vogliamo, ma potenzialmente altrettanto devastante: il turismo di massa, che mette in serio pericolo il delicato equilibrio culturale e naturale della nazione.
Secondo i dati del Ministero del Turismo, nel 2011 sarebbero entrati nel paese più di 816.000 turisti, il 26% dei quali in tour organizzati [W/MHT s.d, «Myanmar Tourism Statistic 2011»]. Nel 2012 si prevede un aumento del 30%. Le campagne pubblicitarie in atto per invogliare i turisti a visitare il Myanmar sono alquanto ambigue; da concorsi di bellezza organizzati appositamente per viaggiatori, all’entrata in rete di siti web che accennano a possibili sfruttamenti sessuali.
Le grandi catene alberghiere internazionali hanno già avanzato proposte per la costruzione di megavillaggi sulle spiagge di Ngapali, sulle rive del lago Inle o nei pressi del complesso archeologico di Bagan.
Proprio a Bagan, dove nel 2012 la presenza dei visitatori è cresciuta del 50%, si concentrano le maggiori preoccupazioni di chi vede l’aumento del turismo come una minaccia per l’integrità dei monumenti [W/MHT 26 novembre 2012, «Union Minister for Hotel and Tourism meets hoteliers and tour operators from Bagan and Mandalay region, attends opening ceremony of Hotel service course»]. Vale anche la pena ricordare che, nei luoghi più prestigiosi, sia dal punto di vista naturalistico, come il lago Inle, sia dal punto di vista culturale, come la città di Pagan, le strutture alberghiere costruite negli ultimi anni hanno già provocato dei danni paesaggistici incalcolabili.
La nazione, inoltre, non è ancora dotata di infrastrutture tali da assorbire una quantità di visitatori particolarmente esigenti; ne consegue che, come si è già anticipato, l’arrivo del turismo di massa potrebbe sconvolgere la vita, le tradizioni e la stessa stabilità sociale di un paese che già ha enormi problemi di disuguaglianze e di sopravvivenza.


6. Le nuove politiche di pace nella questione etnica

Il problema del turismo non si pone nelle zone di confine, dove vivono numerose minoranze etniche. Molte di queste aree sono precluse agli stranieri, altre hanno un accesso limitato.
Dopo il rilascio di centinaia di prigionieri politici (l’ultima amnistia è del 19 novembre 2012), rimangono incarcerati, a causa delle loro idee, 216 persone [W/AAPP 20 novembre 2012, «List of Political Prisoners whose whereabout are verified»].
I numerosi condoni, di cui hanno beneficiato anche personalità internazionalmente note, come il già citato Ko Ko Gyi e il comico Zarganar, e la rimozione, avvenuta il 27 agosto, di circa 2.000 nomi di stranieri iscritti nella lista nera hanno indotto i governi democratici ad allentare l’attenzione verso il problema delle aspirazioni nazionali delle minoranze etniche. Un problema che, vogliamo ribadirlo, non è stato creato dai militari, visto che esisteva già prima della costruzione dell’idea di nazione birmana da parte degli inglesi nel XIX secolo, ma che i generali hanno sicuramente amplificato con una gestione miope e poco disponibile al dialogo.
Nel discorso tenuto in occasione del primo anniversario della formazione del suo governo, Thein Sein ha posto come uno degli obiettivi principali del gabinetto il ritorno alle trattative di pace con i gruppi etnici in lotta. In particolare, il presidente ha voluto ricordare la conferenza di Panglong del 1947, riprendendo non a caso ciò che già Aung San Suu Kyi, pochi giorni dopo la sua liberazione, aveva auspicato [W/PO 1° marzo 2012, «Address delivered by President of the Republic of the Union of Myanmar U Thein Sein’s at today’s third regular session of first Pyidaungsu Hluttaw»]. Nella conferenza di Panglong, le nazioni Shan, Chin e Kachin accettarono di entrare nell’unione birmana in cambio della promessa (mai mantenuta) di una futura eventuale autonomia.
Sul fronte etnico, il 2012 è stato un anno particolarmente agitato: da una parte si sono visti concludere accordi di cessate il fuoco con 11 gruppi armati, dall’altra aree che, fino al 2012, erano state relativamente calme, come la regione Rakhine, sono state sconvolte dalla furia nazionalista.
Tra i trattati di pace firmati da Thein Sein, quelli conclusi il 27 febbraio con il New Mon State Party (NMSP), il partito di rappresentanza dei gruppi mon, e, il 7 aprile, con il Karen National Union (KNU), quello che rappresenta i karen, sono stati particolarmente importanti [W/DVB, 27 febbraio 2012, «Mon army agrees truce with govt»; W/KNU, 7 aprile 2012, «The KNU Press Release on 1st Meeting between KNU Delegation and Union – Level Peace Delegation»]. Dopo questi armistizi, infatti, l’intera regione del confine orientale con la Thailandia è stata posta in uno stato di tregua armata, così da permettere la realizzazione del progetto tailandese di Dawei.
I termini del cessate il fuoco, pur differenziandosi da gruppo a gruppo, a seconda della forza politica e militare espressa e del periodo in cui sono stati siglati i trattati, hanno tutti alcuni punti in comune. Fra questi vi è il fatto di non essere mai stati ratificati in forma scritta, trovando espressione solo e sempre in forma verbale, e di non contemplare forme di autonomia, se non in misura molto restrittiva, e, comunque, sempre con formulazioni ambigue, che lasciano ampio spazio ad interpretazioni diverse. Si tratta di un modo di procedere che, ovviamente, non può che rendere gli accordi in questione provvisori e instabili.
L’intervento di imprenditori come mediatori nei conflitti etnici è sempre stato determinante per la loro risoluzione o per la rottura delle trattative. Tutti gli accordi di pace, infatti, pur partendo da linee di principio ideologiche e culturali, si trasformano ben presto in veri trattati economici che determinano con precisione la divisione delle ricchezze. Quando il bilanciamento di questa spartizione è ritenuto soddisfacente da entrambe le parti, gli accordi vengono firmati e le armi messe a tacere.
Gli accordi firmati da Thein Sein con i gruppi etnici non fanno eccezione.
Il gruppo dei kachin – rappresentato dalla potente Kachin Independence Organization (KIO) e dal suo gruppo armato, la Kachin Independence Army (KIA) – è l’unico che ancora non ha siglato alcun accordo con il governo di Nay Pyi Taw,. I combattimenti nello stato settentrionale del Myanmar sono continuati nel corso del 2012, provocando  instabilità nell’intera regione e la sua immobilità economica. A nulla, sono valsi i numerosi incontri bilaterali tra le diverse parti in lotta, alcuni dei quali organizzati da Yup Zaw Hkawng, un potente uomo d’affari kachin e padrone della Jadeland Company, una compagnia che commercia in pietre preziose.
Il conflitto, che aveva posto fine ad un lungo armistizio durato 17 anni, era iniziato nel 2010, anche a causa di un «colpo di stato» all’interno del KIO, quando alcuni battaglioni si erano ribellati alla dirigenza, reputata troppo morbida nei confronti del governo centrale. Appoggiati da gran parte della popolazione, i leader più intransigenti hanno colto l’occasione delle riforme di Thein Sein per iniziare il conflitto noto come «guerra del Kokang» e contrastare il progetto della diga di Myitsone [AM 2010, pp. 190-191].
L’annullamento della commessa per la costruzione dell’imponente complesso idroelettrico da 3,6 miliardi di dollari avrebbe privato il KIO di circa 2 milioni di dollari, somma ricevuta dalla Cina come compenso per il consenso e la protezione militare dati dalla dirigenza kachin alle ditte coinvolte. Sebbene recentemente il generale della KIA, Gun Maw, abbia negato ogni coinvolgimento del gruppo secessionista nell’affare, le prove sembrano schiaccianti [W/IW 30 marzo 2012, «Lies, Dam Lies»].
Altrettanto problematica è la situazione nello stato Rakhine, dove 808.000 musulmani Rohingya, su una popolazione totale di 3 milioni di abitanti, nel 2012 hanno iniziato una rivolta.
Non riconosciuti dal governo del Myanmar, che li definisce bengalesi, e neppure dal governo del Bangladesh, che li chiama Rohingya, questo gruppo islamico vive nella nazione birmana da generazioni. La legge di cittadinanza, approvata nel 1982, afferma che i figli di genitori che erano in Birmania prima del 1948 possono chiedere la cittadinanza; nonostante, però, che il 70% dei Rohingya abbia i requisiti necessari per chiedere il certificato, questo viene quasi sempre negato. Con i cambiamenti in atto in Myanmar, ora i buddisti Rakhine temono che anche ai musulmani venga concessa la cittadinanza e che, presto, possano sopravanzarli in numero e amministrare la regione.
È in questo quadro già infuocato che, il 28 maggio 2012, sono iniziati gli scontri tra Rakhine buddisti e Rohingya musulmani.
Il tutto è nato dallo stupro, da parte di tre musulmani di etnia Rohingya, di una donna di religione buddista che ha inasprito le tensioni tra le due etnie. Il 3 giugno, un gruppo di buddisti inferociti, ha assalito un bus di pellegrini islamici, uccidendo dieci passeggeri.
Da queste due circostanze è scaturita una cascata di vendette e di violenze che hanno portato alla morte centinaia di persone e alla fuga dai propri villaggi di 75.000 persone, la maggior parte delle quali Rohingya.
Il governo, dopo aver decretato lo stato di emergenza, è stato incapace di far fronte al dilagare delle brutalità, in gran parte commesse dalla comunità buddista i danni di quella islamica [W/RFA 10 giugno 2012, «Emergency Declared in Rakhine»].
Le ostilità, in questa parte del paese a ridosso del Bangladesh, assumono un significato più sinistro rispetto ai conflitti in atto nelle regioni settentrionali e orientali, perché qui, sulla divisione etnica si innesta il fervore religioso, che travalica i confini nazionali. Alle condanne di paesi quali Malaysia, Pakistan, Arabia Saudita, Indonesia, Iran, Egitto, infatti, si aggiungono le prese di posizione di movimenti e di attivisti islamici. Il 22 luglio, Abu Bakar Ba’syir, leader spirituale del movimento musulmano indonesiano Indonesian Mujahedeen Council, ha scritto una dura missiva al presidente Thein Sein, minacciando di lanciare un jihad se le violenze contro i musulmani non si fossero fermate; quattro giorni dopo, Ehsanullah Ehsan, portavoce del gruppo pakistano Tehreek-e-Taliban, ha chiesto a Islamabad di interrompere ogni rapporto diplomatico con Nay Pyi Taw  [W/A 2 agosto 2012, «Ustadz Abu Bakar Ba’sdyir letter to the President of Myanmar»; W/ET 26 luglio 2012, «Tehreek-e-Taliban Pakistan threaten Myanmar over Rohingya»].
Per fare chiarezza sui fatti accaduti, il 17 agosto Thein Sein ha formato una commissione d’inchiesta comprendente 27 membri di varie religioni e leader della dissidenza come Ko Ko Gyi e Zarganar  [W/PO 17 agosto 2012, «Investigation Commission formed Notification No. 58/2012»]. La mancanza di rappresentanti Rohingya nella commissione si è, però, rivelata fatale; è stato lo stesso Zarganar a rendere noto che il lavoro della commissione si era rivelato più difficile del previsto, vista la reticenza di alcuni testimoni, per la maggioranza musulmani [W/M 18 ottobre 2012, «Burmese investigative commission ‘blocked’ locally: Zarganar»].
Nelle paludose questioni etniche, si è impantanata anche Aung San Suu Kyi che, per la prima volta dalla sua liberazione, è stata fortemente criticata per la sua reticenza nel condannare le violenze dello stato nella regione Kachin e della comunità buddista nel Rakhine [W/KN 25 giugno 2012, «The root, the cause of the Kachin situation»].
Le sue dichiarazioni sulla sua impossibilità di intervenire direttamente a favore dei Rohingya, perché questi non fanno parte del parlamento, non fanno altro che alimentare i giudizi negativi sul suo operato nei confronti delle minoranze etniche [W/DVB 24 settembre 2012, «Is it foolish to criticise Aung San Su Kyi?»]. Sembra davvero che, in questo ambito politico, Su Kyi abbia ereditato da suo padre, Aung San, la fobia verso qualsiasi tentativo da parte delle minoranze etniche di rivendicare i propri diritti nei confronti dalla maggioranza bamar del paese.
La stessa Lady, che mesi prima aveva criticato l’intervento dell’esercito per sedare le rivolte etniche, ha invocato l’invio di truppe del Tatmadaw nel Rakhine [W/RA 9 novembre 2012, «Suu Kyi calls for more troops to end Burma unrest»].
Forse Aung San Suu Kyi e il movimento che ad ella si ispira si stanno ora rendendo conto che la fase di democratizzazione, voluta senza verificare se le condizioni del paese la permettevano, sta liberando ciò che il governo dei militari era sempre riuscito a ingabbiare con la violenza e la paura: il nazionalismo xenofobo. La conseguenza è stato l’inasprimento delle tensioni sociali in tutto il paese.
Ma anche questo fa parte della democrazia.


Copyright © Piergiorgio Pescali


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