Compie quarant’anni una delle
fotografie più famose della Guerra del Vietnam. Scattata l’8 giugno 1972 dal
fotografo dell’Associated Press Huynh Cong Nick Ut, ritrae una bambina
completamente nuda che corre piangendo con le braccia aperte lungo una strada
asfaltata. Accanto a lei altri ragazzini scappano terrorizzati da un orizzonte
devastato dal napalm, la bomba incendiaria ideata per ardere tutto ciò che
incontra, lanciata da un aereo sudvietnamita. A prima vista la drammaticità
dell’immagine si concentra nella smorfia di terrore di quella ragazzina, ma, e
qui potrebbero nascere numerosi dibattiti etici, la storia di questa
istantanea, come di altre, è più drammatica dell’immagine stessa. Kim Phuc,
questo è il nome della bambina ritratta, stava fuggendo da una battaglia in
atto tra le truppe americane e quelle comuniste del Nord Vietnam. Dopo essersi
rifugiata in un tempio caodaista nel villaggio di Trang Bang, a pochi
chilometri dal confine cambogiano, gli scontri si erano fatti più duri,
consigliando la popolazione a cercare rifugio nelle retrovie sudvietamite. Fu
in quel momento che avvenne l’attacco: decine di bombe incendiarie
trasformarono Trang Bang in un inferno le cui fiamme raggiunsero Kim Phuc
bruciandole, assieme ai vestiti, il 30% del suo corpo. I medici dell’ospedale
presso cui Nick Ut e il collega della televisione britannica ITN, Christopher
Wain portarono Phuc, dissero che solo un miracolo avrebbe potuto salvarla. Il
miracolo avvenne e dopo 14 mesi di riabilitazione e di enormi sofferenze, Kim
Phuc guarì. Ma l’inferno a cui era scampata l’8 giugno del 1972, continuò a
perseguitarla: a guerra terminata il governo vietnamita la trasformò in un
«simbolo nazionale della guerra» mostrandola alle troupe giornalistiche
occidentali in visita nel paese asiatico. «Ogni
volta che mi chiedevano di raccontare la storia, era come se quella bomba
scoppiasse nel mio cuore», ricorda Kim Phuc. Psicologicamente distrutta,
fisicamente menomata, senza alcuna prospettiva futura se non quella di essere
icona vivente di una guerra che aveva abbattuto più generazioni, Phuc giunse a
desiderare la morte. Furono due avvenimenti che la salvarono: la conversione
dal caodaismo al cristianesimo e il primo ministro vietnamita, Pham Van Dong, che
le permise di andare a studiare medicina a Cuba. Sacro e profano si intrecciano
nella vita di Kim Phuc e lei stessa continuerà a dire che «Dio mi ha salvato ridandomi fede e speranza». Fu a Cuba che conobbe Bui Huy Than, che nel 1992 divenne suo marito.
Per festeggiare il matrimonio andarono a Mosca. Al ritorno l’aereo fece uno
scalo tecnico in Canada ed i novelli sposi non si lasciarono fuggire l’occasione:
chiesero ed ottennero immediatamente asilo politico. Oggi Kim Phuc vive in
Ontario con il marito e i due figli e la sua tragica storia non è più motivo di
dolore. Dopo essere stata nominata ambasciatrice dell’Unesco e aver fondato la
Kim Phuc Foundation, continua a girare il mondo per sovvenzionare le strutture
che si occupano della riabilitazione fisica e psicologica dei bambini vittime
di guerra.
Copyright ©Piergiorgio Pescali
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