Non dimenticare la storia


Als die Nazis die Kommunisten holten, habe ich geschwiegen;
ich war ja kein Kommunist.
Als sie die Sozialdemokraten einsperrten, habe ich geschwiegen;

ich war ja kein Sozialdemokrat.
Als sie die Gewerkschafter holten, habe ich nicht protestiert;

ich war ja kein Gewerkschafter.
Als sie die Juden holten, habe ich nicht protestiert;

ich war ja kein Jude.
Als sie mich holten,
gab es keinen mehr, der protestierte.


Quando i nazisti vennero per i comunisti, io restai in silenzio;
non ero comunista.
Quando rinchiusero i socialdemocratici, rimasi in silenzio;
non ero un socialdemocratico.
Quando vennero per i sindacalisti, io non feci sentire la mia voce;
non ero un sindacalista.
Quando vennero per gli ebrei, non protestai;
non ero un ebreo.
Quando vennero per me, non era più rimasto nessuno che potesse far sentire la mia voce.

(Emil Gustav Friedrich Martin Niemöller; Lippstadt, 14 gennaio 1892 – Wiesbaden, 6 marzo 1984)



S-21 - Nella prigione di Pol Pot

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S-21; un romanzo storico, una narrazione viva e potente che porta il lettore in una struttura detentiva istituita dal regime degli Khmer Rossi, una prigione da cui pochi sono tornati, seppur segnati nel corpo e nello spirito, vivi.

IL CUSTODE DI TERRA SANTA - un colloquio con padre Pierbattista Pizzaballa

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FESTIVAL FRANCESCANO 2014 - Rimini, piazza Tre Martiri,SABATO 27 SETTEMBRE - ORE 15.00 Presentazione del libro Il Custode di Terra Santa

INDOCINA - Un libro, una saggio, una guida per chi vuole approfondire

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Myanmar: reportage (settembre 2006)


Min Myint è un profugo birmano incontrato a Mae Hong Son, in Thailandia. Un profugo atipico: nella sua casa le pareti sono nude. Nessun poster della “Signora”, come i birmani generalmente chiamano Aung San Suu Kyi, nessuna bandiera, nessuno slogan contro il regime militare che governa il Paese dal 1962. Non crede che Suu possa risolvere la difficile questione etnica, non crede che la democrazia sia la panacea per i 50 milioni di birmani. «Democrazia? Il movimento democratico è diviso nel suo interno, ci sono state espulsioni e sono in molti oggi a criticare la stessa Aung San Suu Kyi». Min Mynt ha autoprodotto un filmato amatoriale che sto guardando e che si chiude provocatoriamente su un’insegna pubblicitaria nella Maha Bandoola Street, la via più commerciale di Yangon: “Spirulina, la birra che ti mantiene giovane per sempre”.

«Tutti abbiamo bisogno di sogni» mi dice Min, «ma in Birmania ci hanno tolto anche quelli. Tutti, militari e democratici. A chi interessa mantenersi giovani e belli quando non sappiamo se domani saremo ancora in vita?» I sogni di questo birmano, che si autodefinisce “un apatico disilluso pieno di progetti per il futuro”, si sono infranti una notte di dicembre 1996 quando, brillante studente universitario e con una borsa di studio per il Giappone già in tasca, venne arrestato per aver partecipato ad una manifestazione a favore della democrazia. Parola, questa, che dal 1962, quando un colpo di stato consegnò il governo al generale Ne Win, è stata cancellata dal vocabolario ufficiale. Da allora di avvicendamenti al potere ce ne sono stati, ma tutti compiuti da fazioni rivali del Tatmadaw, le Forze Armate Birmane. Prima nel 1988, quando un gruppo di militari ironicamente autoproclamatasi Consiglio di Pace e Sviluppo della Nazione, spodestarono Ne Win, poi nel 2004, quando il “liberale” Khyn Nyunt venne arrestato per far posto all’attuale Primo Ministro Soe Win, braccio destro dell’onnipotente Than Shwe. E, tornando a quel dicembre 1996, le prigioni di tutto il paese vennero riempite da migliaia di manifestanti. Fortunati, perché altri migliaia colmarono le fosse comuni del regime tra il silenzio dell’Occidente. Scarcerato nel 2002, in occasione di una sorta di amnistia che aveva portato alla temporanea liberazione di Aung San Suu Kyi, Min aveva ricominciato a sognare un Paese diverso in cui vivere impegnandosi nel movimento democratico. Ma ancora, il 30 maggio 2003, i fucili della giunta militare, schiantarono le sue aspirazioni di giustizia. Tra le 100 e le 280 persone, accorse nel villaggio di Tabarin per ascoltare La Signora e ricevere speranze per il futuro, morirono in quel Black Friday. «Fummo abbandonati a noi stessi e solo grazie alle mance che elargii a militari, oppositori e capi delle diverse etnie, riuscii a rifugiarmi in Thailandia». Come lui, oggi, tra 600.000 e un milione di birmani vivono sparsi in campi profughi in India, Bangladesh, Thailandia, Malesia e Cina. Molti di più, sono esiliati nel loro stesso Paese, i cosiddetti IDP (Internal Displaced People), gente fuggita dai propri villaggi a causa della guerra, dell’esercito, delle carestie, dei trasferimenti in massa. Una situazione drammatica quella birmana che ha avuto risvolti paradossali, come le elezioni generali del 1990, svoltesi regolarmente, ma terminate con un finale tragicomico in cui le regole matematiche vennero invertite per consentire al partito che aveva ottenuto meno voti (quello della Giunta Militare), di mantenere il potere. «In quale altro paese al mondo la comunità internazionale avrebbe accettato un simile imbroglio?» si chiede Than Khaing, una donna d’affari birmana che oggi vive a Singapore. Una prima risposta l’hanno data Condoleezza Rice, includendo la Birmania nella lista nera degli “avamposti della dittatura” e Tony Blair, che ha scoraggiato i turisti a visitare il paese, dividendo gli operatori del settore. Stephen Palmer, portavoce della Lonely Planet, che ha incluso la Birmania tra le sue mete, mi conferma l’impegno della casa editrice: «Accanto alle informazioni turistiche, offriamo anche uno spaccato di quello che sta accadendo nel paese e invitiamo i turisti a orbitare più sulle strutture a gestione famigliare». Di parere opposto è Mark Farmaner dell’organizzazione Burma Campaign, «non è possibile evitare di foraggiare la giunta militare andando in Birmania, visto che tutte le strutture sono collegate a ditte che cooperano direttamente con i militari» Farmaner afferma le stesse infrastrutture destinate al turismo, sono spesso costruite facendo uso di prigionieri e di lavoro forzato. E’ però vero che molti birmani residenti nel paese, si chiedono che senso ha boicottare l’industria turistica quando tutti gli altri paesi asiatici fanno affari d’oro con la Giunta. Hideaki Mizukoshi, direttore dell’Ufficio per gli Affari in Asia e nel Pacifico del Ministero degli Esteri giapponese, ribadisce che «Tokyo non ha alcuna intenzione di impedire le attività giapponesi in Birmania». E anche se le sanzioni economiche costano alla Birmania 350 milioni di dollari per anno, sono decine le multinazionali che hanno sfidato il blocco investendo nel Paese: Total e Petronas garantiscono un miliardo di dollari l’anno, Singapore ha insufflato 1,6 miliardi di dollari in 72 progetti turistici, mentre gli aiuti umanitari nel 2005 sono stati valutati attorno ai 127 milioni di dollari. E’ grazie a questi progetti che le riserve monetarie sono state rimpinguate: secondo l’FMI ammonterebbero ora a 763 milioni di dollari (nel 1988 erano solo 89 milioni). Ma questa ricchezza rimane rinchiusa nei forzieri dei militari: la popolazione rimane una delle più povere della regione, costretta a fare i conti con un’inflazione a due cifre ed un mercato nero che offre un’infinità di prodotti a prezzi dieci o venti volte superiori a quelli statali. E in un Paese dove la natura è tra le più rigogliose e la terra tra le più fertili dell’Asia, un terzo dei bambini è malnutrito, mentre malaria, diarrea e infezioni respiratorie falciano ogni anno 150.000 bambini sotto i 5 anni. Molti birmani guardano a Aung San Suu Kyi ripensando a suo padre, eroe dell’indipendenza. Dopo tante privazioni vogliono pace e prosperità subito. Ma riuscirà La Signora a dare al popolo ciò di cui ha bisogno?
Copyright ©Piergiorgio Pescali

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