Min Myint è un profugo
birmano incontrato a Mae Hong Son, in Thailandia. Un profugo atipico: nella sua
casa le pareti sono nude. Nessun poster della “Signora”, come i birmani
generalmente chiamano Aung San Suu Kyi, nessuna bandiera, nessuno slogan contro
il regime militare che governa il Paese dal 1962. Non crede che Suu possa
risolvere la difficile questione etnica, non crede che la democrazia sia la
panacea per i 50 milioni di birmani. «Democrazia?
Il movimento democratico è diviso nel suo interno, ci sono state espulsioni e
sono in molti oggi a criticare la stessa Aung San Suu Kyi». Min Mynt ha
autoprodotto un filmato amatoriale che sto guardando e che si chiude
provocatoriamente su un’insegna pubblicitaria nella Maha Bandoola Street, la
via più commerciale di Yangon: “Spirulina,
la birra che ti mantiene giovane per sempre”.
«Tutti
abbiamo bisogno di sogni»
mi dice Min, «ma in Birmania ci hanno
tolto anche quelli. Tutti, militari e democratici. A chi interessa mantenersi
giovani e belli quando non sappiamo se domani saremo ancora in vita?» I
sogni di questo birmano, che si autodefinisce “un apatico disilluso pieno di progetti per il futuro”, si sono
infranti una notte di dicembre 1996 quando, brillante studente universitario e
con una borsa di studio per il Giappone già in tasca, venne arrestato per aver
partecipato ad una manifestazione a favore della democrazia. Parola, questa,
che dal 1962, quando un colpo di stato consegnò il governo al generale Ne Win,
è stata cancellata dal vocabolario ufficiale. Da allora di avvicendamenti al
potere ce ne sono stati, ma tutti compiuti da fazioni rivali del Tatmadaw, le
Forze Armate Birmane. Prima nel 1988, quando un gruppo di militari ironicamente
autoproclamatasi Consiglio di Pace e Sviluppo della Nazione, spodestarono Ne
Win, poi nel 2004, quando il “liberale” Khyn Nyunt venne arrestato per far
posto all’attuale Primo Ministro Soe Win, braccio destro dell’onnipotente Than
Shwe. E, tornando a quel dicembre 1996, le prigioni di tutto il paese vennero
riempite da migliaia di manifestanti. Fortunati, perché altri migliaia colmarono
le fosse comuni del regime tra il silenzio dell’Occidente. Scarcerato nel 2002, in occasione di una
sorta di amnistia che aveva portato alla temporanea liberazione di Aung San Suu
Kyi, Min aveva ricominciato a sognare un Paese diverso in cui vivere
impegnandosi nel movimento democratico. Ma ancora, il 30 maggio 2003 , i fucili
della giunta militare, schiantarono le sue aspirazioni di giustizia. Tra le 100
e le 280 persone, accorse nel villaggio di Tabarin per ascoltare La Signora e
ricevere speranze per il futuro, morirono in quel Black Friday. «Fummo
abbandonati a noi stessi e solo grazie alle mance che elargii a militari,
oppositori e capi delle diverse etnie, riuscii a rifugiarmi in Thailandia».
Come lui, oggi, tra 600.000 e un milione di birmani vivono sparsi in campi
profughi in India, Bangladesh, Thailandia, Malesia e Cina. Molti di più, sono esiliati
nel loro stesso Paese, i cosiddetti IDP (Internal Displaced People), gente
fuggita dai propri villaggi a causa della guerra, dell’esercito, delle carestie,
dei trasferimenti in massa. Una situazione drammatica quella birmana che ha
avuto risvolti paradossali, come le elezioni generali del 1990, svoltesi
regolarmente, ma terminate con un finale tragicomico in cui le regole matematiche
vennero invertite per consentire al partito che aveva ottenuto meno voti
(quello della Giunta Militare), di mantenere il potere. «In quale altro paese al mondo la comunità internazionale avrebbe
accettato un simile imbroglio?» si chiede Than Khaing, una donna d’affari
birmana che oggi vive a Singapore. Una prima risposta l’hanno data Condoleezza
Rice, includendo la Birmania nella lista nera degli “avamposti della dittatura” e Tony Blair, che ha scoraggiato i
turisti a visitare il paese, dividendo gli operatori del settore. Stephen
Palmer, portavoce della Lonely Planet, che ha incluso la Birmania tra le sue
mete, mi conferma l’impegno della casa editrice: «Accanto alle informazioni turistiche, offriamo anche uno spaccato di
quello che sta accadendo nel paese e invitiamo i turisti a orbitare più sulle
strutture a gestione famigliare». Di parere opposto è Mark Farmaner dell’organizzazione
Burma Campaign, «non è possibile evitare
di foraggiare la giunta militare andando in Birmania, visto che tutte le
strutture sono collegate a ditte che cooperano direttamente con i militari»
Farmaner afferma le stesse infrastrutture destinate al turismo, sono spesso
costruite facendo uso di prigionieri e di lavoro forzato. E’ però vero che
molti birmani residenti nel paese, si chiedono che senso ha boicottare
l’industria turistica quando tutti gli altri paesi asiatici fanno affari d’oro
con la Giunta. Hideaki Mizukoshi, direttore dell’Ufficio per gli Affari in Asia
e nel Pacifico del Ministero degli Esteri giapponese, ribadisce che «Tokyo non ha alcuna intenzione di impedire le
attività giapponesi in Birmania». E anche se le sanzioni economiche costano
alla Birmania 350 milioni di dollari per anno, sono decine le multinazionali
che hanno sfidato il blocco investendo nel Paese: Total e Petronas garantiscono
un miliardo di dollari l’anno, Singapore ha insufflato 1,6 miliardi di dollari
in 72 progetti turistici, mentre gli aiuti umanitari nel 2005 sono stati
valutati attorno ai 127 milioni di dollari. E’ grazie a questi progetti che le
riserve monetarie sono state rimpinguate: secondo l’FMI ammonterebbero ora a
763 milioni di dollari (nel 1988 erano solo 89 milioni). Ma questa ricchezza
rimane rinchiusa nei forzieri dei militari: la popolazione rimane una delle più
povere della regione, costretta a fare i conti con un’inflazione a due cifre ed
un mercato nero che offre un’infinità di prodotti a prezzi dieci o venti volte
superiori a quelli statali. E in un Paese dove la natura è tra le più
rigogliose e la terra tra le più fertili dell’Asia, un terzo dei bambini è
malnutrito, mentre malaria, diarrea e infezioni respiratorie falciano ogni anno
150.000 bambini sotto i 5 anni. Molti birmani guardano a Aung San Suu Kyi
ripensando a suo padre, eroe dell’indipendenza. Dopo tante privazioni vogliono
pace e prosperità subito. Ma riuscirà La Signora a dare al popolo ciò di cui ha
bisogno?
Copyright ©Piergiorgio Pescali
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