Accelerato
il processo di democratizzazione in Birmania, ora aspettiamo di vederlo
ampliato a tutto il Myanmar. L’elezione di Aung San Suu Kyi al parlamento
nazionale non è importante perché rappresenta una svolta democratica nel paese
(questa era già iniziata dopo la seconda metà del 2011), quanto perché sancisce
il riconoscimento del governo di Thein Sein delle forze di opposizione in un parlamento
che, fino a quattordici mesi fa, era dominato dai militari. Ma sino ad ora, la
carta democratica si è giocata principalmente nella regione centrale della
nazione asiatica, quella che gli inglesi chiamavano Birmania. E’ in quest’area, che si estende lungo il
bacino dell’Ayeyarwaddy fino a Mytkyina, che si è sempre decisa la politica
dell’intero Myanmar. E sono sempre stati politici di etnia bamar, o birmana, a
dettare le sorti di una nazione formata da 135 entità etniche differenti. I
bamar, a cui appartiene anche Aung San Suu Kyi, e che rappresentano il 68%
della popolazione del Myanmar, hanno sempre negato una rappresentanza
significativa alle minoranze culturali e linguistiche. Neppure Aung San, eroe
nazionale e padre della stessa Suu Kyi, si è mai mostrato accondiscendente con
la periferia della nazione, trattando i gruppi etnici con il pugno di ferro e
negando loro ogni autonomia. La fase di apertura democratica avvenuta nel
paese, è stata quella più semplice, perché interessava un solo gruppo etnico. Ora occorre estendere il
pluralismo all’esterno della regione birmana. Ed è qui il passo più difficile
che dovrà compiere Thein Sein. L’influenza di Aung San Suu Kyi potrà facilitare
solo in parte il compito del gabinetto di Nay Pyi Taw. La Lady, infatti, nelle
zone periferiche del Myanmar non è popolare come lo è nella regione etnica a
cui appartiene. Shan, Chin, Kin, Wa, Rakhine, Mon, gelosi della propria
autonomia, continuano a mantenere propri eserciti e diffidano anche della bamar
Suu Kyi. Accontentare le istanze di questi popoli significherebbe, inoltre,
coinvolgere anche la politica etnica dei paesi limitrofi come Cina, Thailandia,
Laos, India e, in esteso, anche Vietnam. Tutte nazioni, queste, che hanno
enormi problemi di convivenza e di diritti umani con le popolazioni montane.
Ecco perché ora, dopo tanti slogans e promesse, anche la Lega Nazionale per la
Democrazia si troverà costretta a ritirare certe prese di posizione “liberali”
assunte nel passato. Spiace dirlo, ma l’unica organizzazione transnazionale
capace di avere una rappresentanza su tutto il territorio è il Tatmadaw,
l’esercito. Anche Aung San Suu Kyi sa che senza il Tatmadaw non può esistere il
Myanmar, ed è per questo che, specialmente negli ultimi mesi, quando era chiaro
che sarebbe stata candidata (ed eletta) al parlamento, ha smorzato i toni
contro i militari e la stessa Cina. La strada
verso la democrazia in Myanmar è sicuramente a buon punto, ma è giunta ad una
svolta. Perché possa procedere, ora occorre inoltrarsi oltre i confini etnici.
Ed è qui che il gioco si farà duro. Anche per Aung San Suu Kyi.
© Piergiorgio Pescali
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