Il 7
novembre I birmani saranno chimati alle urne per decidere quale parlamento
traghettera' il Paese verso un regime piu' democratico. La storia del Myanmar,
pero', insegna che tutto quanto si riferisce alla politica, ed in particolare
agli interessi dei militari, il condizionale e' d'obbligo. Le ultime elezioni,
tenutesi nel 1990 con la vittoria della Lega Nazionale per la Democrazia (LND)
di Aung San Suu Kyi, avevano lasciato sperare che la dittatura iniziata nel
1962, fosse terminata. L'improvviso voltafaccia del governo, che annullo' il
verdetto popolare, spense le flebili speranze di democrazia. Ogi la situazione
sembra lasciare qualche spiraglio di ottimismo: Than Shwe, il numero uno della
gerarchia militare, e' vecchio e malato. Le elezioni, codificate da una
costituzione approvata nel 2008, saranno il suo salvacondotto per una vecchiaia
ricca, pacifica e onorevole. E' proprio nell'uscita di scena di Than Shwe che
si ripongono tutte le speranze per l'avvio di una transizione democratica in
Myanmar. Gli ufficiali militari piu' giovani, che sino ad ora non hanno avuto
alcuna possibilita' di emergere, sembrano piu' interessati a riformare l'intero
sistema politico ed economico, piuttosto che a mentenere uno status quo
destinato ad emarginare il Paese. Assicurando il 25% dei seggi parlamentari al
Tatmadaw (le Forze Armate birmane), qualunque sia l'esito che scaturira' dalle
urne, i generali saranno ancora in gradodi controllare la politica nazionale,
ecitando “contraccolpi” democratici troppi impetuosi, che rischierebbero di
portare la nazione verso l'anarchia sociale. “I birmani non sono ancora
pronti a gestire il Paese con la democrazia” ci dice un diplomatico
occidentale, che continua: “il rischio e' che il Myanmar cada in uno stato
di caos incontrollato simile a quello che ha portato alla dissoluzione della
Yugoslavia”. La giunta militare ha comunque gia' ottenuto una piccola
vittoria con la spaccatura interna dell'LND tra la fazione che, seguendo le
direttive di Aung San Suu Kyi, non partecipera' al voto e chi, invece, ha
deciso di infiltrarsi nel varco costituzionale vagamente pluripartitico. “Rifiutando
ogni dialogo con la giunta, si avvallera' cio' che i militari hanno sempre
sostenuto; e cioe' che sono le forze democratiche birmane ad ostacolare il
processo di democratizzazione.” spiega Khin Maung Swe, ex portavoce del LND
e fondatore del National Democratic Force, uno dei 37 partiti ammessi alla
tornata elettorale. Maung Swe poi continua: “Il voto del 7 novembre non
avra' tutte le caratteristiche di un voto democratico, ma per la prima volta
dal 1962, I civili potranno entrare a pieno titolo nel governo del Myanmar”. Assieme
a Khin Maung Swe, altri esponenti dell'opposizione hanno preferito cogliere
l'opportunita' del voto: Kaung Myint Htut, leader del Gruppo 88 che nel 1988
aveva condotto la protesta studentesca contro Ne Win, afferma che il voto sara'
“una prova piu' per giunta che per le forze democratiche. I militari puntano
tutto sulla buona riuscita di queste elezioni. Vediamo se sapranno mantenere la
promessa di un avvio alla democrazia”. Il primo test del nuovo corso
politico lo si avra' il 13 novembre, giorno in cui Aung San Suu Kyi dovrebbe
essere liberata. Sono in molti, qui a yangon, a sperarlo, anche se molti membri
dell'LND hanno espresso il proprio dubbio sulla liberta' di movimento concessa
alla Lady: “Una eventuale liberazione di Aung san Suu Kyi sarebbe certamente
un passo importante” spiega un alto dirigente del partito, “ma
bisognera' vedere sino a che punto I militari garantiranno la liberta' di
azione politica e fisica”. La liberazione di Aung San Suu Kyi farebbe parte
di un nuovo approccio verso gli USA e l'Occidente, sino adoggi ostacolato in
tutti I modi da Than Shwe. Non e' un caso che nel febbraio 2009, Hillary
Clinton ha annunciato un ammorbidimento delle sanzioni verso il Myanmar. Gia'
nel 2007 l'arcivescovo di Yangon, Mons. Charles Bo, auspicava questa apertura
da parte di Washington: “Il boicottaggio verso il nostro Paese” diceva, “danneggia
solo la popolazione birmana, consegnando il Myanmar nelle mani della Cina”.
Ed e' proprio Pechino che guarda con sospetto il nuovo corso diplomatico. Il
Myanmar e' un serbatorio energetico indispensabile per l'economia cinese, che
solo negli ultimi sei mesi ha investito nel Paese la bellezza di 8,17 miliardi
di dollari, quasi tutti in campo energetico. “A Pechino non interessa quale
sia l'esito delle elezioni” analizza Thu Wai, ex prigionierom politico e
oggi leader del Democratic Party, “Alla Cina interessa solo che il Myanmar
continui ad essere economicamente legato ad essa e che il nuovo governo
mantenga la stabilita' nazionale”. La stabilita' regionale e' un problema
che sta a cuore a tutti: la frammentazione etnica del Myanmar e' sempre stata
vista con paura da qualsiasi governo centrale. Lo stesso Aung San, padre di
Aung San Suu Kyi, non ha mai avuto la mano morbida verso le etnie di confine.
Gli accordi di cessate il fuoco conclusi dal governo centrale, sono stati
rimessi in discussione dalla costituzione, che prevede l-accorpamento dei
singoli eserciti etnici in Guardie di Frontiera Armate sotto il comando
dell'esercito birmano. L'offensiva del Kokang iniziata nel 2009 ha allarmato la
Cina, che si e' vista arrivare in poche settimane 30.000 profughi. C'e' voluta
tutta l'abilita' di mediazione di Pechino per riportare la situazione
all'apparente stato di normalita'. “E' vero, pero', che la costituzione del
2008 garantisce ai gruppi etnici un'autonomia economica e una rappresentanza
politica maggiore di qualsiasi altra costituzione scritta in precedenza”
commenta Simon Tha, fisico e candiodato per il Kayin Peoples Party. Le elezioni
del 7 novembre, per quanto possano essere manipolate e poco limpide,
rappresentano comunque un biglietto da visita per le reali intenzioni della
giunta militare verso il futuro del Paese.
Copyright ©Piergiorgio Pescali
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