Archiviate le elezioni caratterizzate da un'astensionismo
che sa tanto di protesta antivogernativa, tutto il Myanmar ora guarda
all'annunciata liberazione di Aung San Suu Kyi. Se la promessa dei militari
verra' mantenuta, la Lady birmana dovrebbe terminare la sua pena agli arresti
domiciliari il 13 novembre. Il suo avvocato, Nyan Win, anche portavoce della
Lega Nazionale per la Democrazia, ha gia' fatto sapere che la leader del
movimento democratico rifiutera' ogni limitazione alla propria liberta' di
movimento e di espressione. "Il rilascio deve essere incondizionato, perché
lei non accetterebbe una libertà limitata. Non l'ha mai accettata in
passato" ha detto Nyan Win. Difficile, a questo punto, prevedere cosa
accadra': la giunta militare cerchera' di evitare che il Premio Nobel per la
Pace se ne vada in giro per il Paese a incitare una popolazione in gran parte a
lei favorevole, a ribellarsi al regime dispotico di Than Shwe e Company. Certo
e' che la liberazione della Signora, potrebbe giocare un ruolo fondamentale
nella vita politica del Myanmar. La generazione piu' giovane ed aperta dei
militari vede la partecipazione di Aung San Suu Kyi piu' come un'opportunita' piuttosto
che come una minaccia, come sino ad oggi e' sempre stata considerata. "La
via alla democrazia e' oramai avviata" mi conferma un militare aperto
e moderato, che vede con simpatia il coinvolgimento di quadri democratici nel
governo che verra' costituito dal Parlamento. Bisognera' pero' vedere se e
quando Than Shwe si alzera' dal suo scranno dorato e chi lo occupera' al suo
posto. Del resto, il rilascio di Suu Kyi
servirebbe alla giunta birmana per mostrare a tutto il mondo che la via della
democrazia iniziata con la nuova Costituzione del 2008 e proseguita con le elezioni di settimana scorsa,
continua senza inceppamenti. La liberazione di Aung San Suu Kyi sarebbe
compresa nel "pacchetto" di riforme richiesto da Obama affinche'
vengano tolte anche le ultime sanzioni rimaste ai danni del regime birmano. La
Cina potrebbe a questo punto obiettare perche' un Myanmar isolato
economicamente e emarginato politicamente avvicinerebbe una nazione ricchissima
di fonti energetiche e di gas naturale, a Pechino. Il moloch economico cinese
per continuare a crescere ai ritmi attuali ha assoluta necessita' di ingoiare
energia che da solo non possiede. Ecco quindi il forte interesse per il
Myanmar: miliardi di dollari delle compagnie petrolifere cinesi stanno
confluendo nele casse del governo. Ma anche l'India sta cercando di
accaparrarsi la propria fetta di torta. L'ambigua politica di Nuova Delhi, in
bilico tra l'appoggio al regime militare e al movimento democratico di Aung San
Suu Kyi, dovrebbe servire all'India a essere pronta verso qualunque situazione
vada il futuro del Paese. Nel frattempo a Yangon e in tutta la regione abitata
dai Bamar, la Birmania propriamente detta - da non confondersi con il Myanmar,
che comprende tutte le 135 etnie che compongono la nazione - la liberazione di
Suu Kyi predomina ormai in ogni conversazione privata. "Con Aung San
Suu Kyi libera finalmente anche noi potremo avere una guida politica."
afferma una studentessa universitaria che, pur votando Myanmar Democratic Force
alle elezioni del 7 novembre, si dice pronta a seguire la sua icona ideologica.
Se i Bamar guardano con interesse e ottimismo gli eventi dei prossimi giorni, differente
e' la situazione negli stati etnici periferici, dove Aung San Suu Kyi e' vista
solo un'altra alternativa al governo dispotico dei Bamar su ogni altra etnia. "Un
governo con Aung San Suu Kyi al potere non sarebbe molto differente da quello
che stiamo combattendo ora" ha detto per telefono un leader dell'etnia
Mon, attualmente impegnata in combattimenti con l'esercito birmano. "Non
concedera' molto piu' di quello che abbiamo ottenuto con Than Shwe"
e' il commento di uno dei comandanti dell'esercito Wa, uno dei piu' agguerriti
ed ideologizzati di tutto il Myanmar, un tempo base del Partito Comunista
Birmano ed appoggiato dalla Cina Popolare. La liberazione di Aung San Suu Kyi
potra' sicuramente essere salutata con un'ovazione da tutto il mondo, ma non
risolvera' di certo i problemi dei 55 milioni di birmani. Per questo ci
vorranno decenni di "riabilitazione" al senso della democrazia; una
qualita' che non si ottiene solo a parole. Se, come tutti sperano ma pochi
credono, il Premio Nobel per la Pace avra' la possibilita' di partecipare
attivamente alla vita politica del paese, sicuramente un primo passo potra'
dirsi completato. Ma un primo passo non porta mai al traguardo. Per
raggiungerlo, occorre che ne seguano altri.
Copyright ©Piergiorgio Pescali
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