Non dimenticare la storia


Als die Nazis die Kommunisten holten, habe ich geschwiegen;
ich war ja kein Kommunist.
Als sie die Sozialdemokraten einsperrten, habe ich geschwiegen;

ich war ja kein Sozialdemokrat.
Als sie die Gewerkschafter holten, habe ich nicht protestiert;

ich war ja kein Gewerkschafter.
Als sie die Juden holten, habe ich nicht protestiert;

ich war ja kein Jude.
Als sie mich holten,
gab es keinen mehr, der protestierte.


Quando i nazisti vennero per i comunisti, io restai in silenzio;
non ero comunista.
Quando rinchiusero i socialdemocratici, rimasi in silenzio;
non ero un socialdemocratico.
Quando vennero per i sindacalisti, io non feci sentire la mia voce;
non ero un sindacalista.
Quando vennero per gli ebrei, non protestai;
non ero un ebreo.
Quando vennero per me, non era più rimasto nessuno che potesse far sentire la mia voce.

(Emil Gustav Friedrich Martin Niemöller; Lippstadt, 14 gennaio 1892 – Wiesbaden, 6 marzo 1984)



S-21 - Nella prigione di Pol Pot

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S-21; un romanzo storico, una narrazione viva e potente che porta il lettore in una struttura detentiva istituita dal regime degli Khmer Rossi, una prigione da cui pochi sono tornati, seppur segnati nel corpo e nello spirito, vivi.

IL CUSTODE DI TERRA SANTA - un colloquio con padre Pierbattista Pizzaballa

IL CUSTODE DI TERRA SANTA - un colloquio con padre Pierbattista Pizzaballa
FESTIVAL FRANCESCANO 2014 - Rimini, piazza Tre Martiri,SABATO 27 SETTEMBRE - ORE 15.00 Presentazione del libro Il Custode di Terra Santa

INDOCINA - Un libro, una saggio, una guida per chi vuole approfondire

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Afghanistan - Nel Waziristan con i Taleban

Le piogge incessanti dei mesi scorsi hanno distrutto tutti i ponti e le strade nel Nord Waziristan, la più indomita delle sette province che compongono la Federally Administered Tribal Area (FATA), la regione pakistana a ridosso del confine afghano. Qui, dove decine di etnie non hanno mai riconosciuto l’autorità centrale di Islamabad, i Taliban hanno creato un proprio stato praticamente autonomo. Per quasi due anni l’esercito pakistano, su pressione degli Stati Uniti, ha combattuto casa per casa, grotta per grotta per stanare i guerriglieri e privarli delle loro basi. Quando l’offensiva stava per dare i suoi frutti, le disastrose alluvioni hanno vanificato tutti i successi, permettendo ai Taliban di riconquistare il terreno perduto e la fiducia della popolazione, abbandonata a sé stessa da un governo inetto e corrotto. «Le piogge sono state una punizione che Allah ha voluto dare al Pakistan e una benedizione per chi, invece, ha continuato a seguire la fede nell’Islam» mi spiega Bilal, un contadino di Darga Mandi, un villaggio rimasto sempre fedele ai guerriglieri. E’ da qui che parto con una colonna talebana per visitare le zone da loro controllate. Piove ancora quando il canto del mohezzin chiama i fedeli alla prima preghiera del giorno. L’alba è ancora lontana, ma Rahman intona già il takbir: «Allah u Akbar!, Allah u Akbar!», Allah è grande. Accanto a lui scorgo l’Ak-47, inseparabile compagno di viaggio quanto il suo rosario e Corano. In pochi minuti ci lasciamo alle spalle Darga Mandi, o meglio, ciò che rimane del villaggio dopo che, all’inizio di settembre, alcuni droni USA hanno raso al suolo la metà delle case. A pochi chilometri corre l’indefinita linea Durand, il confine segnato nel 1893 e mai accettato dagli afghani. La frontiera è rimasta un tratto di matita segnata sulla cartina geografica; nessuno saprà mai dirmi con esattezza se stiamo calpestando suolo afghano o pakistano. «Siamo nel Pashtunistan» si limitano a dire. L’idea mai abbandonata del grande Afghanistan, che comprende tutte le aree pakistane abitate dai Pashtun, l’etnia a cui appartengono i Taliban, non è solo un miraggio. La perfetta conoscenza del terreno e l’appoggio della popolazione wazira permette ai Taliban di aggirare ogni avamposto pakistano. Ai guerriglieri non servono strade: si cammina a piedi, arrampicandosi sulle nude montagne per 10-15 ore al giorno; alcune pattuglie hanno le moto e con queste arrivano in aree che neppure i carri armati pakistani riescono a raggiungere. Neppure la mancanza di cibo (non mangiamo da tre giorni), rappresenta un deterrente per questi guerrieri di Dio. «La nostra fede in Allah ci nutre, l’odio per gli infedeli ci disseta» mi dice Noorullah, uno dei Taliban. Poi, sorridendo, guarda l’infedele occidentale che gli sta a fianco e corregge il tiro: «Non preoccuparti; ho bevuto a sufficienza per ora.» Secondo Amnesty International ci sono 4 milioni di pakistani che vivono sotto il codice talebano. La maggior parte vi è costretta dalle vicende belliche, ma la sfiducia verso il governo nazionale non lascia prospettive migliori a chi si trova sotto la legge di Islamabad. La corruzione è così radicata che, tra l’imbarazzo generale, l’Europa ha deciso di finanziare progetti di aiuto alle popolazioni colpite dalle inondazioni tramite organizzazioni non governative. «Il 26% del budget annuale è destinato alla difesa e il 28% per ripagare i debiti contratti con l’estero» lamenta Ijad Majid, professore di Economia all’Università di Peshawar, «Come può uno stato progredire lasciando le briciole alla sanità, all’educazione e ai servizi sociali?» conclude aggiungendo che su 170 milioni di pakistani, solo 2,3 milioni pagano le tasse. Nel Waziristan la situazione è peggiore che altrove: solo le organizzazioni accettate dai Taliban riescono a portare soccorso, rafforzando l’idea di abbandono che serpeggia tra la popolazione. Ma anche tra i mujaheddeen non regna la pace: come già accaduto durante l’invasione sovietica, le fazioni si fronteggiano tra loro ritagliandosi territori governati da signori della guerra. Così la colonna dei Taliban afghani che mi ha accolto fa capo a Jalauddin Haqqani, fedele al Mullah Omar e, pur rappresentando la parte più consistente della guerriglia afghana, deve rivaleggiare con i combattenti di Gulbuddin Hekmatyar, leader storico della resistenza antisovietica. Entrambe, poi, devono rispettare le aree controllate da Gul Bahadur, leader dei Taliban pakistani. E a complicare ulteriormente il puzzle waziro, ci sono colonne dei militanti punjabi, ceceni, uiguri, tagiki e gli arabi di al-Qaeda. Nessuno, neppure l’onnipotente ISI (i servizi segreti pakistani) tanto vicina ai Taliban, né la CIA, sa esattamente cosa sta accadendo nel Nord Waziristan. Il presidente pakistano Asif Ali Zardari, inetto e incompetente quanto la sua defunta moglie Benazir Bhutto, sta perdendo consensi rischiando di consegnare il Paese di nuovo nelle mani dei militari. Rinchiuso nella sua elegante villa a Islamabad sembra non accorgersi della violenza dilagante e del degrado sociale: nel 2009 ci sono stati più attacchi suicidi in Pakistan che in Afghanistan e 1400 donne sono state uccise dai propri famigliari, mentre altre 680 hanno preferito togliersi la vita per le umiliazioni subite. Nelle zone di estrema instabilità sociale, come nella FATA, la politica del governo nazionale è desolatamente infantile, limitandosi a conquistare e mantenere le posizioni. Le fasi più importanti, di ricostruzione sociale e delle infrastrutture e il passaggio dei poteri ai leaders locali, non sono mai state prese in considerazione, lasciando che fossero i Taliban a puntellare con la loro presenza le comunità tribali. E’ proprio uno di questi leaders, Hamid Khan, che, tra le nebbie che si diradano all’orizzonte, lascia intravedere una possibile soluzione del conflitto afghano: «Ormai è chiaro che nessuno può vincere questa guerra e a Kabul nessun governo potrà riportare la pace se non aprendo un dialogo con i Taliban.»

© Piergiorgio Pescali

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