Non dimenticare la storia


Als die Nazis die Kommunisten holten, habe ich geschwiegen;
ich war ja kein Kommunist.
Als sie die Sozialdemokraten einsperrten, habe ich geschwiegen;

ich war ja kein Sozialdemokrat.
Als sie die Gewerkschafter holten, habe ich nicht protestiert;

ich war ja kein Gewerkschafter.
Als sie die Juden holten, habe ich nicht protestiert;

ich war ja kein Jude.
Als sie mich holten,
gab es keinen mehr, der protestierte.


Quando i nazisti vennero per i comunisti, io restai in silenzio;
non ero comunista.
Quando rinchiusero i socialdemocratici, rimasi in silenzio;
non ero un socialdemocratico.
Quando vennero per i sindacalisti, io non feci sentire la mia voce;
non ero un sindacalista.
Quando vennero per gli ebrei, non protestai;
non ero un ebreo.
Quando vennero per me, non era più rimasto nessuno che potesse far sentire la mia voce.

(Emil Gustav Friedrich Martin Niemöller; Lippstadt, 14 gennaio 1892 – Wiesbaden, 6 marzo 1984)



S-21 - Nella prigione di Pol Pot

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S-21; un romanzo storico, una narrazione viva e potente che porta il lettore in una struttura detentiva istituita dal regime degli Khmer Rossi, una prigione da cui pochi sono tornati, seppur segnati nel corpo e nello spirito, vivi.

IL CUSTODE DI TERRA SANTA - un colloquio con padre Pierbattista Pizzaballa

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FESTIVAL FRANCESCANO 2014 - Rimini, piazza Tre Martiri,SABATO 27 SETTEMBRE - ORE 15.00 Presentazione del libro Il Custode di Terra Santa

INDOCINA - Un libro, una saggio, una guida per chi vuole approfondire

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Bhutan - Reportage (Agosto 2009)

Le ali dell’aereo della Druk Air sembrano sfiorare le montagne attorno la valle di Paro fino a quando l’aeroporto, uno dei pochi al mondo dove si atterra ancora a vista, appare all’orizzonte. Sotto di me si estende il Bhutan, un Paese grande quanto la Svizzera, incastonato come una gemma nella catena himalayana. Catapultato in un mondo dove la vita sembra scorrere disinteressandosi di ciò che accade al di fuori dei suoi confini, qui si concretizza la favola esotica dello Shangri-La. Lo stesso nome ufficiale della nazione, Druk Yul, Paese del Drago Tonante, ricorda che storia e leggenda si intersecano in un nodo inestricabile. Nelle valli si trovano rocce con impresse le impronte lasciate da Guru Rimpoche, il monaco indiano che nel VII secolo portò il buddismo nella regione, o laghi in cui Pema Lingpa si è tuffato per riemergere con libri sacri, meritandosi l’appellativo di terton, cercatore di testi antichi. In pochi luoghi al mondo le vicende storiche e mitologiche si permeano a vicenda come in Bhutan. Persino oggi si chiamano in causa gli astrologi reali per valutare decisioni politiche: le celebrazioni per il centesimo anniversario della monarchia bhutanese, che si sarebbero dovute svolgere nel 2007, sono state posticipate al 2008 perché questa data risultava astralmente propizia. «Ciò che per voi è puro mito o superstizione, per noi è storia e storiografia» mi dice, nel suo inglese impeccabile, Tshering Denkar, insegnante di storia alla scuola superiore di Paro. E’ insieme a lei che, dalle rovine del Drugyal Dzong, intravedo le nevi del Jomolhari. Al di là, a sole due giornate di viaggio, si estende il Tibet, per difendersi dal quale, nel 1647, Ngawang Namgyal eresse questo dzong, o monastero-fortezza. Nel corso dei cento anni successivi le truppe del Dalai Lama tentarono per ben cinque volte di sconfiggere i rivali della setta Drukpa Kagyud, che nel Bhutan avevano trovato fervida accoglienza, ma vennero sempre respinti. I formidabili bastioni naturali e l’abilità militare dei bhutanesi, consentirono al Paese di mantenere le proprie caratteristiche culturali, religiose e la propria indipendenza. Oggi, però, eserciti meno potenti, ma più insidiosi, stanno scalfendo i driglam namzha, i valori tradizionali. Il 50% dei 700.000 bhutanesi ha meno di 25 anni e, dopo un lungo e felice isolamento, sono ansiosi di conoscere ciò che “sta al di fuori”, come definisce il mondo esterno Tenzin Dorji, voce della rock band bhutanese Who’s Your Daddy. Televisione e internet sono i veicoli tramite cui vengono più facilmente assimilati i comportamenti digressivi e poco valgono le censure dei canali ritenuti più offensivi alla morale bhutanese, come MTV, Fashion TV o i programmi di wrestling. Barbara Crossette, autrice del libro So Close to Heaven: The Vanishing Buddhist Kingdoms of the Himalayas è chiara sul futuro della nazione: «Il Bhutan si trova di fronte ad un bivio: integrarsi all’economia regionale, e allora deve accettare i cambiamenti sociali che ne derivano, o mantenere la purezza dei valori culturali e sociali; in questo caso dovrà rivedere tutti i programmi economici e politici varati sino ad oggi». I 18.000 turisti che ogni anno visitano il Paese, assieme ad una gran quantità di valuta pregiata portano modelli di vita assimilati acriticamente dalla gioventù bhutanese. E nonostante il Paese si sia dotato di un singolare computo dello sviluppo chiamato Prodotto di Felicità Lorda, che misura l’evoluzione della nazione sulla base di valori umani e ambientali, la richiesta di beni materiali è in continuo aumento. Gli effetti dell’espansione socio-economica iniziata nel 1974, sono evidenti: gli echi del drago tonante, sono sovrastati dagli aerei e dalle macchine che percorrono i 5.000 chilometri di strade, mettendo in pericolo le foreste che ricoprono, per legge, il 60% del territorio. Anche i mantra cantilenanti dei monaci, le urla di gioia degli arcieri, eroi sportivi nazionali, sono sempre più spesso dominati dalle note di Eminem o dei Nirvana. E se la vendita del tabacco è vietata, niente paura: un po’ di marijuana la si trova sempre, visto che cresce rigogliosa nelle valli del paese. L’entrata del Bhutan nel novero delle giovani democrazie, avvenuta per volere dell’ex re Jigme Singye Wangchuck, è l’ultimo passo per la completa integrazione al mondo esterno, ma non trova tutti d’accordo: «Siamo sempre stati felici con il sistema che abbiamo avuto sino ad oggi: perché cambiare?» lamenta Tsheltrim Wandgu, un contadino di Jakar. Gli esempi del Nepal e dell’India sono, purtroppo, evidenti e il timore è che anche il pacifico Bhutan cada nella spirale della violenza. E’ già accaduto nel 1964, con l’assassinio del Primo Ministro Jigme Palden Dorji e, più recentemente nel 1988, quando un censimento rivelò che l’etnia di origine nepalese e hinduista giunta in Bhutan dal XIX secolo, stava sopravanzando la maggioranza Bhote buddista. L’esempio del Sikkim, che nel 1975 vide abolire in un sol colpo monarchia e indipendenza con un referendum il cui risultato fu influenzato dall’etnia nepali, indusse il governo di Thimphu a varare una serie di leggi sulla cittadinanza assai restrittive. In base a queste nuove disposizioni circa 100.000 Lhotshampa (letteralmente “gente del sud”, nome con cui vengono definiti dal governo le etnie nepali) fuggirono in Nepal dove ora languono in sette campi profughi, donando al Bhutan il poco invidiabile primato del paese con la percentuale di profughi più alta al mondo. Nonostante le pressioni internazionali, Thimphu ha sempre rifiutato di accogliere i 106.000 esuli, adducendo come giustificazione che solo il 25% di loro avrebbe diritto di cittadinanza. «In realtà sono tutti bhutanesi. Il Bhutan ha paura che il rientro dei rifugiati possa importare ideologie che destabilizzerebbero il sistema.» spiega Silas Bogati, direttore della Caritas Nepal, che ha diversi progetti nei campi profughi. La questione dei rifugiati getta una macchia indelebile sul governo bhutanese, ma, fortuna per lui, sono ben pochi in Occidente coloro che ne sono a conoscenza. Un altro dramma dimenticato.

© Piergiorgio Pescali

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