Non dimenticare la storia


Als die Nazis die Kommunisten holten, habe ich geschwiegen;
ich war ja kein Kommunist.
Als sie die Sozialdemokraten einsperrten, habe ich geschwiegen;

ich war ja kein Sozialdemokrat.
Als sie die Gewerkschafter holten, habe ich nicht protestiert;

ich war ja kein Gewerkschafter.
Als sie die Juden holten, habe ich nicht protestiert;

ich war ja kein Jude.
Als sie mich holten,
gab es keinen mehr, der protestierte.


Quando i nazisti vennero per i comunisti, io restai in silenzio;
non ero comunista.
Quando rinchiusero i socialdemocratici, rimasi in silenzio;
non ero un socialdemocratico.
Quando vennero per i sindacalisti, io non feci sentire la mia voce;
non ero un sindacalista.
Quando vennero per gli ebrei, non protestai;
non ero un ebreo.
Quando vennero per me, non era più rimasto nessuno che potesse far sentire la mia voce.

(Emil Gustav Friedrich Martin Niemöller; Lippstadt, 14 gennaio 1892 – Wiesbaden, 6 marzo 1984)



S-21 - Nella prigione di Pol Pot

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S-21; un romanzo storico, una narrazione viva e potente che porta il lettore in una struttura detentiva istituita dal regime degli Khmer Rossi, una prigione da cui pochi sono tornati, seppur segnati nel corpo e nello spirito, vivi.

IL CUSTODE DI TERRA SANTA - un colloquio con padre Pierbattista Pizzaballa

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FESTIVAL FRANCESCANO 2014 - Rimini, piazza Tre Martiri,SABATO 27 SETTEMBRE - ORE 15.00 Presentazione del libro Il Custode di Terra Santa

INDOCINA - Un libro, una saggio, una guida per chi vuole approfondire

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Il Tibet a 50 ani dalle rivolte del 10 marzo 1959 (I)

Tibet, Dalai Lama e Cina: una miscela pericolosamente instabile che, se aggiunta alla commemorazione di un evento a forte impatto emozionale come il cinquantesimo anniversario della rivolta che convinse il XIV Dalai Lama a riparare in India, rischia di diventare esplosiva. Il 10 marzo 1959, infatti, Lhasa fu teatro di violenti scontri tra le forze cinesi e i tibetani. Una settimana dopo, il 17 marzo, Tenzing Gyatso scappò da Lhasa per riparare tra le braccia di Nehru. Le autorità cinesi, timorose che nuove manifestazioni simili a quelle avvenute lo scorso anno, possano catalizzare l’attenzione del mondo e generare nuove critiche alla politica di Pechino, hanno già isolato la regione: frontiere chiuse a turisti e stranieri, internet e linee telefoniche, comprese quelle cellulari, isolate per prevenire che i vari gruppi di manifestanti si tengano in contatto. E’ comunque da tempo che le avvisaglie di fermenti sono concrete: 109 monaci del monastero di An Tuo sarebbero stati arrestati, mentre nella prefettura di Golog, nel Qinghai, alcuni manifestanti hanno lanciato bombe incendiarie a due auto della polizia. Il Presidente cinese Hu Jintao, ha lanciato un appello ai tibetani esortandoli a «costruire una Grande Muraglia contro il separatismo». Jintao, che è stato Segretario del Partito Comunista del Tibet dal 1988 al 1992, ha anche citato il recente rapporto pubblicato dalla Xinhua, in cui vengono elencati i successi economici e sociali ottenuti dalla regione sotto l’amministrazione socialista. L’indiscutibile miglioramento delle condizioni di vita dei tibetani, si scontra, però, con l’insensibilità mostrata verso la cultura locale. L’International Campaign for Tibet, un’organizzazione vicina al Dalai Lama, ha pubblicato un rapporto in cui si afferma che la repressione cinese verso il Tibet è paragonabile a quella durante la Rivoluzione Culturale. Secondo l’ICT, dopo le manifestazioni del marzo 2008, sarebbero scomparsi 1.200 tibetani, una cifra, del resto, simile a quella fornita dalle autorità cinesi (che parlano di 953 persone arrestate), le quali aggiungono però che solo 76 di loro sono stati riconosciuti colpevoli. Anche se parlare di repressione rifacendosi alla Rivoluzione Culturale è decisamente esagerato, la situazione dei diritti umani è critica, in particolare nelle province esterne alla Regione Autonoma del Tibet. Sono le regioni del Qinghai, Sichuan, Gansu, fino al XVII secolo appartenenti al Tibet storico, dove la popolazione tibetana vive separata dai consanguinei di Lhasa. E’ all’interno di queste aree, e non a Lhasa, che si sono registrati il maggior numero di scontri e manifestazioni, spesso con degenerazioni violente nei confronti delle etnie han e hui. La frustrazione della separazione etnica, qui si innesta anche alla percezione della diluizione demografica. Gli insuccessi della politica del governo tibetano in esilio nel raggiungere un risultato concreto nella questione tibetana, sta creando un diffuso malumore anche tra gli esuli riparati all’estero. Sempre più numerosi sono i dissensi verso la politica di moderazione proposta dal Dalai Lama. Il Tibetan Youth Congress e il National Democratic Party, criticano da tempo l’orientamento del governo di Dharamsala, proponendo come alternativa all’autonomia, la piena e completa indipendenza. Anche il più noto intellettuale tibetano vivente, lo scrittore Jamyang Norbu, si è schierato dalla loro parte, isolando ancor più il Dalai Lama. Ad irritare maggiormente Pechino e ad imbarazzare le diplomazie occidentali, sono le richieste che questi gruppi avanzano: l’indipendenza, un traguardo già di per sé stesso arduo da raggiungere, non interesserebbe solo la Regione Autonoma del Tibet, ma addirittura il cosiddetto Tibet etnico, la regione che comprende l’intera provincia del Qinghai e parte della provincie del Gansu, Sichuan e Yunnan. Non si parlerebbe più, quindi, di un milione e duecentomila chilometri quadrati con due milioni e seicentomila abitanti, il 93% dei quali di etnia tibetana, ma di un’area che si estenderebbe su una superficie doppia e una popolazione di dieci milioni di persone, ma di cui solo il 50% tibetani. Accettando, per assurdo, le istanze tibetane, si darebbe libero sfogo alle aspirazioni secessioniste di decine di altri gruppi etnici in Cina e in India, sovvertendo l’intero equilibrio del continente asiatico. Nessuno stato accetterebbe un simile rischio.

© Piergiorgio Pescali

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