A Choeung Ek i turisti si aggirano tra le fosse comuni; i teschi dei cambogiani portati qui dalla S-21 ed uccisi, sono impilati in una torre di vetro. Alcuni hanno ben visibile i fori dei proiettili, altri hanno il cranio semplicemente spaccato. Nella S-21 c’è una foto in bianco e nero di Duch, il direttore della prigione. Pur essendo stata scattata più di trent’anni fa, non è molto diverso dal Duch che, pochi giorni fa, ha inaugurato il processo a ciò che rimane della dirigenza che, tra il 1975 e il 1978, governò la Cambogia. Duch, Ieng Thirith, Ieng Sary, Nuon Chea e Khieu Samphan sono i soli rimasti della nutrita schiera di Khmer Rossi che il 15 aprile 1975 entrarono trionfanti a Phnom Penh. In poco più di tre anni e mezzo, un quarto della popolazione cambogiana morì di stenti, malattie ed esecuzioni. All’appello, però, mancano diversi esponenti della vecchia guardia, tra cui il leader di Kampuchea Democratica, Pol Pot. Facile, quindi, per gli accusati, scaricare su di lui tutte le responsabilità. Il processo avviene in una Cambogia completamente differente da quella dei Khmer Rossi, ma non necessariamente migliore. Piaghe sociali che i comunisti, pur con i loro metodi sbrigativi, erano riusciti a debellare, oggi sono tornate a riempire la vita dei quattordici milioni di cambogiani: corruzione, prostituzione infantile, omicidi, furti di opere d’arte, droga, traffico d’armi hanno portato al potere una classe politica completamente screditata e inetta. «Parlano di moralità, di giustizia, di rinascimento khmer. Ma dove le vede lei tutte queste qualità quando abbiamo una delle più alte percentuali di HIV al mondo, dove la droga circola liberamente, dove bambine di sette anni vengono vendute a ricchi uomini d’affari e dove all’Assemblea Nazionale siede una cricca di filibustieri e pazzoidi che si spartiscono le fette di potere?» mi dice Chea Mony, Presidente del Libero Sindacato dei Lavoratori Cambogiano. E’ dal 1979 che la Cambogia è governata dallo stesso partito e dallo stesso uomo: l’ex khmer rosso Hun Sen, il quale, assieme all’ex re Norodom Sihanouk, alleato di Pol Pot sin dal 1970, si è sempre opposto al processo ai Khmer Rossi. La stessa ONU, garantendo il seggio alla coalizione comunista sino alla fine degli anni Ottanta, sarebbe per molti corresponsabile del genocidio, assieme a stati come USA, Gran Bretagna, Cina e alla Thailandia, che garantivano assistenza militare e finanziaria ai Khmer Rossi. Il degrado morale in cui è crollato il paese, la povertà e il miraggio delle mode occidentali, hanno indotto le giovani generazioni a disinteressarsi al processo in atto: «La scuola non è ancora preparata a insegnare il recente passato.» cerca di spiegare Kol Pheng, rettore della Pannasastra University di Phnom Penh. Da una ricerca commissionata dal Centro Documentazione della Cambogia, è emerso che la maggioranza dei ragazzi al di sotto dei 15 anni non sa neppure chi siano i Khmer Rossi. La spaccatura tra le generazioni è incolmabile e l’oblio della propria storia, allarma i cambogiani che hanno sperimentato l’esperienza di Kampuchea Democratica: «L’indifferenza con cui i ragazzi khmer seguono le fasi processuali, mi terrorizza. Se non si ricorda, non si impara e rischiamo di ricadere negli stessi errori» mi dice Seng Pich, un contadino cinquantenne di Battambang. «Oggi ho più paura delle nuove generazioni che di Duch» conferma Im Rangsey, sopravvissuto alla prigionia a Kratie ed oggi monaco buddista; «Lui si è scusato e la sua conversione al cristianesimo conferma che si è veramente pentito.»
© Piergiorgio Pescali
S-21 - Nella prigione di Pol Pot

S-21; un romanzo storico, una narrazione viva e potente che porta il lettore in una struttura detentiva istituita dal regime degli Khmer Rossi, una prigione da cui pochi sono tornati, seppur segnati nel corpo e nello spirito, vivi.
IL CUSTODE DI TERRA SANTA - un colloquio con padre Pierbattista Pizzaballa
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