Dal 1984, ogni 3 dicembre, Fatimah si reca a trovare la sua famiglia e in particolare suo figlio Jabal. Per ore parla con loro, raccontando quanto è dura la vita a Mumbai, dove si è trasferita. Parla, parla Fatimah, ma non riceve risposte; Jabal, suo marito, i suoi genitori e i due fratelli da quel 3 dicembre di 18 anni fa riposano nel cimitero musulmano di Bophal. Ha gli occhi pieni di lacrime, Fatimah, quando mi racconta di come la nube di metilisocianato (MIC) sprigionatasi dai serbatoi di stoccaggio della fabbrica dell’Union Carbide avvolse silenziosa interi quartieri della città. Quella notte Jabal, come molti altri, si svegliò ansimante, il sangue che gli colava dal naso, le manine continuavano a sfregare gli occhi impregnati di MIC. Fatimah correva, correva, incurante dei suoi polmoni che ad ogni passo si svuotavano d’aria per riempirsi di un miscuglio di gas mortale, schivando le decine di corpi già distesi a terra o agonizzanti. Sperava di salvare il suo Jabal, ma alla fine l’aria le mancò del tutto; tracollò a terra alzando con le ultime forze il fagottino inerme sperando di aiutarlo a respirare aria pura. L’ultima cosa che si ricorda di quella terribile notte, è il capo ciondolante di suo figlio e una manina che le stringeva il sari. Ancora oggi, a 18 anni di distanza, Fatimah non si spiega come mai Allah non le abbia permesso di morire. Ma non se lo spiegano neppure Ibrahim, padre di tre figli, morti anche loro a distanza di tre giorni l’uno dall’altro, e Raju, fervente induista il quale forse quella notte credeva che quel gas non fosse opera umana, ma il divino soffio di Shiva, tornato sulla terra per compiere la distruzione del mondo. Migliaia di persone morirono tra atroci sofferenze e altrettante migliaia di persone continuano a soffrire nel corpo e nello spirito. L’ecatombe di Bhopal, nonostante i reiterati tentativi dell’Union Carbide di farla dimenticare, sino a giungere nel 1999 a fondersi con la Dow Chemical, fa discutere ancora oggi. Delle 521.262 persone “ufficialmente” dichiarate esposte al gas dal Consiglio Indiano per la Ricerca Medica, circa 120.000 soffrono ancora oggi dei postumi della tragedia. Per curarle sono sorti centri terapeutici, ospedali, dispensari; alcuni eseguono trattamenti a titolo gratuito, altri – e sono purtroppo la maggioranza – hanno sfruttato la tragedia e la disperazione dei poveracci per accumulare denaro senza troppa fatica. Sono, questi ultimi, principalmente piccoli ambulatori, spesso allestiti senza alcun criterio medico-scientifico e igienico, diretti, per lo più, da medici incompetenti se non addirittura da ciarlatani. La strategia che utilizzano è sempre la stessa: aprire il proprio studio al centro di zone più depresse colpite dal MIC, in modo che pazienti evitino il lungo e costoso tragitto verso le cliniche specializzate, come la Sambhavna Clinic o il Bhopal Hospital Trust. Chola Road, una strada a circa mezzo chilometro in linea d’aria dalla fabbrica dell’Union Carbide, pullula di questi ambulatori privati: ognuno ha a suo carico tra i dieci ed i centocinquanta pazienti giornalieri a si cui chiedono tariffe tra le 10 e le 25 rupie per ogni consulto (a questa somma si devono aggiungere le spese per i medicinali). Satinah Sarangi, responsabile del Centro Documentazione della Sambhavna Clinic, mi indica alcuni studi che, per lui, sono tra i più affidabili. I medici che incontro, esercitano regolarmente la loro professione da diversi decenni, come Kishan Lal, della New Veenu Clinic aperta nel lontano 1968. Kishan è uno dei dottori più conosciuti in questa zona di Bhopal e la sua lunga carriera professionale può essere utile per quantificare l’incidenza del MIC su alcune patologie: «In questi ultimi 19 anni ho notato un aumento delle malattie che interessano l’apparato respiratorio, in particolare tosse, bronchiolite e dispnea da sforzo». Diversa è l’opinione del dr. Anil Tilwani, direttore di una delle maggiori cliniche di Chola Road, il quale afferma di non ritenere che il MIC abbia causato effetti duraturi sulla salute dei sopravvissuti più giovani: «Tra i miei pazienti al di sotto dei cinquant’anni di età non ho nessun caso di malattie riconducibili al MIC; quello che molte organizzazioni affermano, è pura propaganda.» Il grosso problema della giusta valutazione dell’incidenza del MIC sui disturbi lamentati dagli abitanti delle zone colpite dalla fuga di gas è una delle controversie più spinose abbattutesi sulle vittime di Bhopal. «Le malattie causate dalla miseria si sono confuse con la cronicità delle patologie causate dal MIC» afferma il dr. Gianni Tognoni, ricercatore del Mario Negri e uno dei 15 componenti della Commissione Internazionale Medica di Bhopal (CIMB), un team di specialisti provenienti da 12 Paesi esperti in epidemiologia, malattie polmonari, neurotossicologia, malattie occupazionali, ingegneria ambientale, medicina legale, organizzazione di sistemi sanitari. «A Bhopal non è mai stato posto in atto un sistema di monitoraggio serio e continuativo come, ad esempio, si è fatto a Seveso.» Questo, assieme alle incredibili leggerezze legali che hanno ridotto gli indennizzi decretati dalla Corte Indiana a cifre irrisorie (circa 350-400 dollari a testa), ha portato la scrittrice indiana Arundhati Roy ad affermare che le 16.000 vittime di Bhopal contano «poco, molto poco. In un’economia rivolta essenzialmente al profitto, i poveri non hanno diritti. Si dice che gli USA sono una grande democrazia, ed è vero, almeno entro i suoi confini. Ma al di fuori di essi la libertà che dispensano è quella dell’umiliazione, del soggiogamento al servizio del libero mercato.» Le dure parole della Roy potrebbero indurre alla rassegnazione se a Bhopal non esistessero associazioni che, senza fine di lucro, si occupano di assistere i pazienti più gravi: la già citata Sambhavna Clinic è sicuramente la più famosa e prestigiosa tra queste. Fondata nel settembre 1996 dal dottor Bhargava, famoso nel collegio dei medici indiani per essere stato insignito della Legione d’Onore dal presidente francese nel 1988 a causa dei suoi contributi scientifici e sociali, in poco tempo è divenuta un faro per le vittime della Union Carbide resistendo al richiamo del facile guadagno. Nei suoi sei anni di attività, la clinica ha curato gratuitamente sino ad oggi undicimila pazienti, alternando medicina moderna e terapie tradizionali indiani come yoga, ayurveda, meditazione. «Dopo aver subito gli effetti del gas ho continuato ad avere problemi di deambulazione, encefalee e tosse» lamenta Narendra Chaubey; «Ho vistato moltissime cliniche private, spendendo tutta la somma ottenuta in risarcimento come vittima dell’incidente, ma non ricevendo mai alcun sollievo, fino a quando una mia parente mi ha parlato di questa clinica. Da un anno frequento un corso di terapia ayurvedica e fisioterapia. Ora sto decisamente meglio.» La Sambhavna riesce ad autosovvenzionarsi grazie ad una fitta rete di 5.000 sostenitori sparsi per i cinque continenti; dopo la pubblicazione del libro di Dominique Lapierre e Xavier Moro, mezzanotte e cinque a Bhopal, parte del cui ricavato va all’ospedale, le maggiori entrate hanno permesso l’apertura di un nuovo centro di ginecologia, la Dominique Lapierre City of Joy Sambhavna Gynaecology Clinic, colmando la mancanza di attenzione sanitaria verso le condizione femminile. «Neppure il tanto rinomato Bhopal Memorial Hospital Trust, con tutti i suoi budget miliardari ha mai pensato che le donne debbano avere attenzioni particolari; così non si è mai realizzato un centro ginecologico degno di questo nome tanto da non annoverare tra il suo staff neppure un ginecologo o una macchina per il PAP test» accusa Aziza Sultan, infermiera al reparto ginecologico della Sambhavna. «Questa deficienza, sommata alla mancanza di una ricerca sugli effetti a lunga scadenza del MIC, sono i principali punti di scontro tra le organizzazioni di volontariato operanti con le vittime di Bhopal e il Bhopal Memorial Hospital Trust» mi dice il dr. Dhara Ramana, direttore dell’Emory Eastside Occupational Health Center di Snellville, Georgia, USA e membro della CIMB. Già, il Bhopal Memorial Hospital Trust, la più grande istituzione esistente nella città indiana fondata con i soldi ricavati dalle vendita delle azioni dell’Union Carbide India (e per questo particolarmente criticato dalle associazioni che dicono di difendere gli interessi delle vittime). Il suo costo, 90 milioni di dollari, ha permesso la costruzione di una struttura dotata di strumenti modernissimi e di altri cinque minicliniche in diversi punti della città. Una cooperazione del BMHT con le più affidabili e serie cliniche e dispensari sparsi a Bhopal, avrebbe permesso di migliorare i servizi offerti alle vittime del MIC ed invece le polemiche divampano. Il dottor Atanu Sarkar, del Catholic Health Association od India (CHAI) e coordinatore del Medical Care and Medical Research of Bhopal Gas Victims, ha recentemente pubblicato un accurato rapporto sul BMHT che ha provocato scandalo negli ambienti scientifici e ha minato la fama di serietà professionale del personale impiegato nell’ospedale. Secondo questa ricerca, effettuata su un campione di 380 pazienti, solo il 17,1% dei sintomi sarebbero stati diagnosticati correttamente, il 16,6% avrebbero avuto una diagnosi parzialmente corretta, mentre per ben il 66,3% dei casi la diagnosi si sarebbe mostrata completamente errata. Conseguenze logiche di questa incomprensione professionale sono le prescrizioni errate delle medicine, che per il 26,3% sono risultate essere addirittura dannose per i pazienti e il 48,5% inutili. Infine, del 17,6% dei farmaci ordinati appropriatamente per i sintomi descritti dai pazienti, il 45,3% aveva un dosaggio sbagliato. «Il Bhopal Medical Hospital Trust e le sue cinque cliniche costruite con esso, avrebbero dovuto fornire alle vittime di Bhopal un trattamento medico di alta qualità; la pubblicità creata dall’Union Carbide attorno a questa struttura ha creato speranze che si sono presto dissolte nell’incompetenza dei medici» accusa il dr. Sarkar.
Ma l’ospedale non è la sola fonte di delusione per chi il MIC lo ha respirato ed è sopravvissuto. Circa il 70% delle vittime di Bhopal erano lavoratori precari, senza diritti sindacali; molti di loro erano rikshoala, meccanici improvvisati, scaricatori, muratori, tutti lavori che richiedono notevole sforzo fisico che dopo il disastro non sono stati più in grado di svolgere. Questo ha generato una catena di impoverimento senza fine, costringendo i disoccupati a chiedere prestiti ad usurai che applicano tassi del 200% annuo. Le donne che hanno subito problemi all’apparato riproduttivo non trovano marito venendo relegate ai margini della società e solo un centinaio di loro è riuscita a trovare lavoro presso cooperative e ONG. Secondo gli ambiziosi programmi del governo, il 50% dei mille posti di lavoro presso la Railway Coach Repair Factory avrebbe dovuto essere riservata alle vittime dell’Union Carbide e nel 1987, appena tre anni dopo l’incidente, si inaugurò un progetto di reinserimento lavorativo per 10.000 sopravvissuti costruendo 152 fabbriche artigianali. «Oggi solo 250 vittime lavorano alla Railway Coach Repair Factory, mentre le famose 152 fabbriche destinate a darci lavoro, le vediamo solo dall’esterno: alla fine si è preferito assumere chi non aveva problemi di salute.» mi dice Shiva Ganguly, che nel 1984 aveva 23 anni e che, da allora, non ha mai trovato un posto di lavoro fisso. Di fronte a questi drammi umani e all’atteggiamento tenuto all’indomani della tragedia della maggioranza della stampa specializzata, che ha fatto quadrato attorno alla UCAR, scagliandosi contro gli ambientalisti ed arrivando a dipingere Anderson come un eroe, Bhopal potrebbe sembrare una sconfitta su tutti i fronti per chi lotta per il rispetto dei diritti umani. Anche l’UCAR, diretta responsabile della tragedia, dopo aver sostenuto la tesi del sabotaggio, ha cercato di correre ai ripari mostrando al mondo una presunta buona fede e filantropia, ma è apparso subito chiaro che la sua politica era in primo luogo rivolta a ricapitalizzare il patrimonio. E c’è riuscita. Ma Bhopal, alla fine, ha aperto anche un fronte importante: ha contribuito a porsi la domanda sul come conciliare l’etica con il progresso, il rispetto dei diritti umani con il profitto. Da quel maledetto giorno del 1984 non c’è industria, piccola o grande che sia, che, almeno a parole, non abbia introdotto l’etica tra i suoi programmi di sviluppo: protezione dell’ambiente, salvaguardia della vita umana, armonia tra i dipendenti sono le parole d’ordine che accompagnano ogni programma aziendale.
© Piergiorgio Pescali
S-21 - Nella prigione di Pol Pot

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