Le immagini di decine di corpi allineati lungo le strade di Bhopal sono ancora vivide nella memoria di chi, come Mohan, è sopravvissuto alla più grande catastrofe industriale della storia, il 3 dicembre 1984. Quella notte, dalla vicina fabbrica dell’Union Carbide (UCAR), 27 tonnellate di isocianato di metile (MIC) a cui si aggiunsero altre 13 tonnellate di composti intermedi usati per la produzione di un fertilizzante, il SEVIN, fuoriuscirono dai serbatoi di stoccaggio disperdendosi tra gli slums che circondavano la fabbrica. Circa 2.000 persone morirono prima del sorgere del sole, ma altre migliaia continuarono ad aggiungersene nel corso degli anni. Nell’ottobre del 1995, anno dell’ultimo dato ufficiale emesso dal governo indiano erano 7.575; oggi, dopo più accurate ricerche sul campo, si stima che almeno 16.000 persone siano state vittime del MIC. «16.000 morti che in Occidente contano assai poco» mi dice la scrittrice indiana Arundathi Roy; «perché l’India è vista come un enorme serbatoio di manodopera e 16.000 persone sono solo un’infima, trascurabile percentuale, per di più senza alcun diritto e voce». E’ vero, Bhopal è stato “solo” un “deprecabile incidente” dello sviluppo tecnologico portato dalle multinazionali. «Cosa sarebbe accaduto se il MIC avesse ucciso a Detroit, Manchester, Colonia o a Torino?» si chiede Thara Gandhi, nipote del Mahatma che si batte affinché alle vittime di Bhopal sia riconosciuto il diritto di avere giustizia. La domanda di Gandhi apre un altro spazio di discussione: sarebbe stato possibile per una Union Carbide aprire una fabbrica la cui gestione poco attenta alla sicurezza era stata più volte denunciata, in un paese dell’Europa Occidentale o negli Stati Uniti? Sicuramente no. Non sarebbe stato possibile, ad esempio, stoccare 40 tonnellate di MIC, prodotto altamente tossico ed il cui trattamento esigeva particolari precauzioni; non sarebbe stato possibile lasciare che attorno alla fabbrica sorgessero cittadelle di sottoproletari, non sarebbe stato possibile far funzionare una fabbrica tanto complessa con manovalanza poco istruita e deficitaria in numero. Eppure, paradossalmente, nessuno è stato ritenuto responsabile di queste ed altre mancanze. Arjung Singh, il Primo Ministro del Madhya Pradesh che, in cambio di voti per la sua rielezione aveva permesso l’occupazione del terreno attorno alla UCAR, non è mai stato accusato. Gli speculatori di borsa, che si sono allegramente precipitati a comprare le azioni dell’UCAR, crollate subito dopo l’incidente per poi rivenderle appena sono risalite, hanno incassato parole di elogio per la loro sagacia e prontezza. Warren Anderson, il Presidente dell’UCAR al tempo del disastro, ha avuto tutto il tempo di raggiungere felicemente la pensione, di ritirarsi in Florida e di scomparire nel nulla fino all’estate del 2002, quando Greenpeace è riuscita a rintracciarlo nella sua nuova tenuta di Hamptons, a Long Island. Ora il governo indiano non ha più scuse per non richiederne l’estradizione, ma Dominique Lapierre, autore del libro Mezzanotte e cinque a Bhopal, afferma sconsolato di essere «sfortunatamente convinto che Anderson potrà godersi la sua ricca pensione, anche se i muri di Bhopal sono coperti di scritte che dicono: “Impiccate Anderson!”». L’India ha bisogno del sostegno degli Stati Uniti e dell’Occidente per fronteggiare i suoi nemici pakistani e cinesi e per garantirsi l’entrata nel mercato libero; non può rischiare di creare tensioni per dei derelitti ed emarginati. Recentemente si è riusciti ad evitare per un soffio che l’accusa di omicidio colposo diretta verso Anderson, fosse tramutata in innocua negligenza. Infine la maggioranza della stampa specializzata in industria chimica (e quella italiana si è particolarmente distinta in questo) ha fatto quadrato attorno alla UCAR, scagliandosi contro gli ambientalisti ed arrivando a dipingere Anderson come un eroe. In tutto questo quadro sembrano stonare le parole del Premio Nobel per l’Economia, Amartya Sen, che mi dice: «Senza etica il progresso non ha futuro. Affinché un Paese progredisca occorre che il povero abbia il diritto di istruirsi, di curarsi, di saziarsi, di esprimersi, di viaggiare». Tutto questo può convivere con un’economia rivolta verso il consumo sfrenato e il profitto? John Musser, capo Ufficio Stampa della Dow Chemical, la compagnia che nel 1999 ha assorbito ciò che rimaneva dell’UCAR, risponde affermativamente: «Il motto della Dow è chiaro: prima l’etica, poi il profitto». Eppure sembra contraddirsi quando afferma che «anche se la Dow Chemical ha acquisito la totalità delle azioni dell’Union Carbide, non intendiamo assimilare alcuna loro vertenza legale». Bhopal fa paura all’industria? Certamente non se ne parla volentieri. Nella filiale italiana della Praxair, la costola fuoriuscita dalla UCAR nel 1992 nel tentativo di evitare ogni coinvolgimento con Bhopal, non è mai esistita alcuna forma di informazione su ciò che è accaduto in India. La conseguenza è che ben pochi dipendenti delle consociate, la Rivoira di Torino e la Siad di Bergamo, sono a conoscenza di ciò che è successo quella tragica notte di 18 anni fa. Del resto, a differenza dell’incidente di Seveso, da cui è scaturita una legge che si riconduce al fatto specifico, non è mai stata emessa una Legge Bhopal.
© Piergiorgio Pescali
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