I segni degli scontri avvenuti la settimana scorsa a Lhasa sono ancora evidenti: negozi appartenenti a immigrati cinesi incendiati, la succursale della Banca di Cina devastata, ogni angolo strategico della città, in particolare il Potala e il Jokhang, presidiato dai soldati. La città sacra del buddismo tibetano è militarizzata. I vicoli della parte vecchia, solitamente brulicanti di gente, sono deserti e così il mercato, che in questo periodo dell’anno ospita migliaia di pellegrini e mercanti provenienti dagli altipiani innevati. La normalità è tornata a Lhasa, continuano a recitare i proclami ufficiali. Ma è una normalità fittizia, dettata dalla dura lex chinensis, che esclude ogni forma di dissenso, specie se espresso in forma autonomista. L’Armata Rossa ha spento le fiamme della rivolta, ma tutti sanno che le braci ardono ancora sotto il sottile manto di cenere. E tutti hanno paura. Hanno paura i tibetani, che cominciano a sentirsi abbandonati dal mondo, ma hanno paura anche i cinesi i quali, nell’anno che avrebbe dovuto sancire l’apoteosi dell’economia asiatica, vedono gli occhi del mondo puntati sulla parte sbagliata della nazione. Guardiamo tutti non verso Pechino, dove si svolgeranno in pompa magna i Giochi Olimpici, ma al Tibet e, in misura minore, allo Xinkjiang. «Pechino è infuriata: dopo aver perso i giochi olimpici del 2000 ed aver atteso questi per oltre un decennio, ora i tibetani e gli uiguri stanno rovinando tutto» afferma Mark Allison, collaboratore di Amnesty International a Hong Kong. Ma quanto si concentrerà l’attenzione dell’Occidente sul Tibet? «Remember Burma», ricordati la Birmania, ammonisce Tenzing Dorma, professore di Storia alla Tibet University di Lhasa, riferendosi all’oblio in cui è piombato il paese sudest asiatico dopo l’ondata di interesse durante la repressione dei monaci birmani. Se Parigi valeva bene una messa, quanto varrà Pechino? Sicuramente più dei 19 morti ufficialmente dichiarati dalle autorità o dei 99 proclamati dal governo in esilio. «Gli scontri del 14 marzo sono stati i più violenti dal 1989 ad oggi» dice Pasang Norbu, un monaco orginario di Golmud. «Personalmente non ho visto nessuna vittima, ma molte famiglia tibetane lamentano la mancanza di questo o quel famigliare». Il governo locale ha stampato dei volantini in cui si promette una mancia a chi darà notizie di ventuno tibetani considerati i leaders della rivolta. Tra i tibetani, nel frattempo si sta sempre più radicando la sindrome del falso amico. Un attivista indipendentista tibetano che vive a Lhasa, il cui nom-de-guerre, Songsten, rievoca il primo re che nel VII secolo unificò il Tibet, ricorda che nessuno stato occidentale ha mai voluto riconoscere il Tibet come nazione indipendente. «Si è sempre preferito assecondare il volere della Cina. Al massimo premevano per garantirci uno status di autonomia. Ma nessuno ha mai appoggiato le richieste di indipendenza». Del resto già nel 1715 il padre gesuita Ippolito Desideri, che studiò presso l’Università di Sera e grande amico del VII Dalai Lama, incluse il Tibet entro i confini cinesi in una mappa da lui disegnata. E fu lo stesso Tibet a rigettare le offerte di relazioni diplomatiche avanzate da alcuni stati europei durante la prima metà del Novecento. Solo con la Germania nazista si stabilirono stretti contatti sino a consentire ad una spedizione antropologica di girare in lungo e in largo la regione. E ancora, fu lo stesso Dalai Lama ad accettare, il 26 ottobre 1951, l’Accordo in Diciassette Punti che sanciva “il ritorno del popolo del Tibet alla grande famiglia della madrepatria, la Repubblica Popolare Cinese”. Tutti questi insegnamenti che la storia ci propone, devono essere ricordati per capire le innumerevoli sfaccettature che offre la questione tibetana. «Abbiamo sbagliato nel passato. Lo hanno fatto i nostri padri e le loro colpe oggi ricadono su di noi. E’ la legge del karma» ammette Tsultrim, vice abate del monastero di Pel Kor a Gyantse. Alla legge del karma, i cinesi contrappongono la legge del materialismo, fatta di industrializzazione accelerata che ha costretto il governo centrale a promuovere un largo afflusso di Han e di turisti sin dal 1984. Ed anche se questo processo non era premeditato per spostare a favore gli Han l’equilibrio demografico del Tibet, come comunemente è fatto credere, è stata proprio questo a concentrare l’attenzione dei tibetani sul problema etnico. Non è un caso che le rivolte dei giorni scorsi, siano state più violente nel cosiddetto Tibet etnologico, cioè in quelle regioni, come il Gansu o il Sichuan, separate politicamente dal Tibet, ma abitate da etnie tibetane. E’ proprio in una cittadina del Gansu, a Hezuo, che i rivoltosi sono riusciti a compiere l’atto più spettacolare: ammainare la bandiera cinese e issare quella tibetana.
© Piergiorgio Pescali
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