L’edificio dove, il 1 luglio 1921, fu fondato il Partito Comunista Cinese si trova al centro del quartiere Huai Hai di Shanghai. L’ultima volta che andai a visitarlo, all’inizio di gennaio, l’intera popolazione del rione, diverse migliaia di persone, operai, piccoli commercianti, braccianti, artigiani, stava sgomberando le proprie case, molte delle quali in stile coloniale, prima che venissero abbattute dalle ruspe. Eric Randall, uomo di punta della Sparkice.com, una società americana di consulenza per lo sviluppo finanziario, mi decantava entusiasticamente il futuro di questa porzione di città sacrificata all’ennesimo nuovo balzo in avanti: uffici, boutiques, ristoranti, fast foods, sedi di importanti multinazionali sarebbero sorti attorno all’edificio un tempo più sacro della Cina.
«I tempi cambiano e anche noi comunisti ci dobbiamo adattare» mi aveva detto Xu Kuangdi, il sindaco di Shanghai durante un’intervista concessami poco tempo dopo, quando gli chiesi cosa penserebbe Mao vedendo questa Cina che, sobbalzata fin dalle sue fondamenta, accettava di perdere la sua identità pur di entrare nel grande circo della globalizzazione e del WTO.
Domenica 1 luglio 2001, 80 anni dopo l’incontro che vide la nascita del PCC, il leader stesso del partito, Jiang Zemin, ha lanciato un’altra picconata al poco che resta dell’ideologia socialista all’interno del movimento. Mettendo da parte decenni di anatemi contro il «capitalismo e i suoi lacché» Zemin ha annunciato che anche gli imprenditori privati, piccoli o grandi che siano, potranno avere (pagando) in tasca la tessera del Partito. Beninteso: non che l’annuncio susciti grossa sorpresa. Di piccoli e medi capitalisti il PCC ne era pieno già da tempo: molti proprietari di alberghi, catene di negozi, stilisti, impresari hanno potuto prosperare nella nuova Repubblica Capitalista Cinese grazie all’appartenenza o alle connessioni covate e lubrificate all’interno del PCC.
Due decenni di radicali trasformazioni, che hanno nel motto di Deng Xiaoping “Un Paese, due sistemi” la nuova parola d’ordine, hanno effettivamente portato la Cina ad affacciarsi alle soglie del nuovo millennio come protagonista dell’economia mondiale, ma è anche vero che in molti, nel Paese più popolato al mondo, hanno ribaltato lo slogan coniandone un altro meno ottimista: «Un sistema, due Paesi». La crescita economica viaggia al ritmo dell’8% annuo, ma anche il divario tra i dakuan, i nuovi milionari, e i poveri si sta allargando in misura ogni mese sempre più allarmante. Oramai anche le autorità di Pechino non riescono più a nascondere le rivolte popolari che scoppiano quasi ovunque nelle campagne.
Investimento è la parola magica che oggi corre sulla bocca di tutti i burocrati di partito, ma in cinese l’ideogramma di investimento è la combinazione di due altri segni ideografici: opportunità e rischio. L’opportunità è quella di cancellare con un sol colpo di spugna le condanne subite per il Tibet, per Tien An Men, per i diritti umani ed entrare a pieno diritto nel novero delle potenze economiche mondiali. Il rischio è quello di tradire non solo l’idea stessa di comunismo, ma addirittura le origini di un Partito nato non tanto nel filone dell’ortodossia marxista che lo vuole protettore del proletariato, quanto organizzazione che lasciava ai contadini il compito di costituire l’avanguardia rivoluzionaria. Mao sarà stato quel che è stato, ma fu l’unico a capire nella sua particolare genialità, che in Cina, come in Asia, solo i contadini avrebbero potuto sovvertire il potere delle città. E in Asia tutte le rivoluzioni postmaoiste, da quella coreana a quella indocinese, seguirono il percorso inverso di quello della Rivoluzione d’Ottobre in Russia, dove la rivolta leninista-trotzkista si espanse dalle città alle campagne.
Non è un caso che, quel 1 luglio di ottant’anni fa, non nacque un Partito Comunista Cinese, ma il Gong Chang Dong, Partito della Suddivisione della Proprietà, il cui nome e i punti programmatici si rivolgevano prevalentemente alle masse contadine. «Chi saprà conquistare i contadini, conquisterà la Cina: chi saprà risolvere il problema della terra, conquisterà i contadini» diceva Mao Zedong.
Il nuovo corso del PCC, già da tempo avviato, ma ufficializzato solo domenica, stravolge questa linea di pensiero e lo fa nel modo più pericoloso possibile. Gli impegni presi da Pechino di rispettare i parametri imposti dall’FMI e dal WTO per entrare a far parte del sistema del mercato libero mondiale, non tengono conto delle centinaia di milioni di contadini che si troveranno sul lastrico nel giro di pochi mesi, allorché migliaia di tonnellate di prodotti agricoli stranieri invaderanno il mercato cinese. Sembra proprio che la nuova dirigenza in giacca e cravatta del PCC sia più preoccupata a farsi accettare dalla comunità internazionale piuttosto che a difendere i propri cittadini. Ne è testimonianza il continuo ripetersi della violazione di diritti umani verso chi manifesta idee diverse: anche se le organizzazioni umanitarie hanno ammesso che la Cina sta migliorando sotto questo aspetto, politici, religiosi e addirittura i maoisti sono ancora oggi oggetto di continue persecuzioni.
In Cina si dice che il comunismo viva ancora. Forse. Io, nella Cina che ho visto, di comunismo ho visto ben poco. In Finale di Partita di Samuel Beckett, Ham chiede: «Perché non mi ammazzi?». E Clov risponde: «Non conosco la combinazione della dispensa». In Cina non si ammazza del tutto il comunismo perché forse è ancora l’unica chiave che riesce a foraggiare milioni di cinesi.
Nonostante tutto.
© Piergiorgio Pescali
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