Non dimenticare la storia


Als die Nazis die Kommunisten holten, habe ich geschwiegen;
ich war ja kein Kommunist.
Als sie die Sozialdemokraten einsperrten, habe ich geschwiegen;

ich war ja kein Sozialdemokrat.
Als sie die Gewerkschafter holten, habe ich nicht protestiert;

ich war ja kein Gewerkschafter.
Als sie die Juden holten, habe ich nicht protestiert;

ich war ja kein Jude.
Als sie mich holten,
gab es keinen mehr, der protestierte.


Quando i nazisti vennero per i comunisti, io restai in silenzio;
non ero comunista.
Quando rinchiusero i socialdemocratici, rimasi in silenzio;
non ero un socialdemocratico.
Quando vennero per i sindacalisti, io non feci sentire la mia voce;
non ero un sindacalista.
Quando vennero per gli ebrei, non protestai;
non ero un ebreo.
Quando vennero per me, non era più rimasto nessuno che potesse far sentire la mia voce.

(Emil Gustav Friedrich Martin Niemöller; Lippstadt, 14 gennaio 1892 – Wiesbaden, 6 marzo 1984)



S-21 - Nella prigione di Pol Pot

S-21 - Nella prigione di Pol Pot
S-21; un romanzo storico, una narrazione viva e potente che porta il lettore in una struttura detentiva istituita dal regime degli Khmer Rossi, una prigione da cui pochi sono tornati, seppur segnati nel corpo e nello spirito, vivi.

IL CUSTODE DI TERRA SANTA - un colloquio con padre Pierbattista Pizzaballa

IL CUSTODE DI TERRA SANTA - un colloquio con padre Pierbattista Pizzaballa
FESTIVAL FRANCESCANO 2014 - Rimini, piazza Tre Martiri,SABATO 27 SETTEMBRE - ORE 15.00 Presentazione del libro Il Custode di Terra Santa

INDOCINA - Un libro, una saggio, una guida per chi vuole approfondire

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Storia dell'Afghanistan

Uno dei paesi più poveri al mondo: 652.000 chilometri quadrati di aridi deserti intervallati da aspre montagne che raggiungono i 7.500 metri, nessuno sbocco al mare. I suoi 26 milioni di abitanti rappresentano un mosaico di una decina di diverse etnie tra cui prevalgono i pashtun, (38% della popolazione), i tajiki (25%), gli hazara (19%) e gli uzbeki (6%). Quattro bambini su cento non raggiungono l’anno di vita e, se la fame, le malattie, la guerra, le mine antiuomo permetteranno loro di superare i 45 anni, si possono considerare fortunati, perché vuol dire che hanno già superato il limite medio di vita nel loro Paese (in Italia possiamo sperare di vivere fino a 78 anni). Questi semplici dati mostrano quanto l’Afghanistan sia marginale nella vita economica della regione centroasiatica. Eppure la sua posizione geografica, posta strategicamente al centro di una rete di passaggi obbligati che dall’Asia sudorientale si dirigono in Medio Oriente e poi in Europa, ha imposto il controllo di questo stato per garantire la stabilità di un’intera regione che, espandendosi dall’India, raggiunge le coste mediterranee dell’Asia occidentale passando per le regioni turcofone del Centro Asia, un tempo appartenenti all’Unione Sovietica ed ancora oggi considerate sotto l’influsso politico e economico di Mosca.
Gran Bretagna e Russia zarista combatterono per tutto il XIX secolo una guerra per il controllo del territorio afgano, conclusasi con il ritiro degli eserciti di entrambe le potenze, incapaci di fronteggiare le tribù che difendevano i loro territori. Nel gennaio 1842, il comandante delle truppe afgane, Akbar Khan, sterminò un intero battaglione di 28.500 soldati della Corona, lasciando in vita solo un soldato di Sua Maestà perché riferisse alla Regina la terribile sconfitta. Ma anche l’Afghanistan, da quel conflitto, ironicamente chiamato Grande Gioco, uscì menomato: dopo aver perso Peshawar nel 1834 ad opera dei Sikh, nel 1859 anche il Belucistan, l’unica regione che permetteva allo stato di avere uno sbocco al mare, passò sotto controllo britannico. L’indipendenza, avvenuta nel 1919 e la successiva ascesa al trono del re Zahir Shah nel 1933 permise al Paese di ritrovare una relativa stabilità, scoprendo una nuova fonte di guadagno economico: il turismo alternativo. Negli anni Sessanta, dall’Europa e dagli Stati Uniti giungevano a migliaia i “Figli dei Fiori”, attirati dal commercio semilegalizzato di oppiacei e di marijuana, comprati nei bazar di qualsiasi villaggio a prezzi irrisori. La situazione afgana, così come oggi la stiamo vivendo, comincia a delinearsi nel 1973, quando Daud, cugino del re, compie un colpo di stato e proclama la Repubblica. Il progressivo avvicinamento di Kabul a Teheran, allora filoamericana, convince Mosca che Daud deve essere sostituito e nel 1978 è il comunista Taraki a prendere il potere. I successivi mesi vedono il rapido deterioramento della situazione: le lotte interne tra le fazioni del Partito Comunista Afgano, l’uccisione di Taraki, la crescente espansione islamica che minacciava, anche dal suo interno, le Repubbliche centroasiatiche sovietiche, indussero l’Armata Rossa a varcare, il 27 dicembre 1979, il fiume Amur Dharya, portando una nazione, sino ad allora semisconosciuta all’opinione pubblica europea, al centro dell’attenzione mondiale. Il territorio afgano si trasformò, in breve tempo in un grande campo di azioni militari nel contesto della Guerra Fredda. I due giocatori, USA e URSS, manovravano le pedine (i mujahedeen ed il governo di Kabul) a seconda delle loro convenienze. E’ in questo periodo che Osama bin Laden, un miliardario saudita di origine yemenita, aderisce al movimento dei mujahedeen afgani contro l’Armata Rossa. Con la consulenza militare e l’appoggio finanziario degli Stati Uniti, della CIA e del Pakistan, costituisce una formazione militare composta esclusivamente da arabi che lottano in nome della jihad. Ad addestrare questi volontari, chiamati arabi afgani, sono i SAS britannici. E’ il primo nucleo di quello che, anni dopo, diventerà il gruppo noto come al-Qa’ida.
Il 15 febbraio 1989, a seguito degli accordi di pace, l’Armata Rossa abbandona l’Afghanistan, lasciandosi alle spalle 40-50.000 propri soldati morti, ma portando con sé il germe della dissoluzione dell’Unione Sovietica, che giungerà nel giro di un paio d’anni. Appare subito chiaro che la forte divisione all’interno della guerriglia afgana farà ripiombare la nazione in una nuova, sanguinosa, guerra civile. E così è. Sparito il nemico esterno, ora le fazioni si combattono tra loro e solo il 15 aprile 1992 i mujahedeen raggiungono Kabul, destituendo il governo comunista di Najibullah e innalzando a Presidente quel Burhannudin Rabbani, leader della Jamiat-i-Islami, che recentemente è tornato nella capitale, dopo la cacciata dei Taleban. Accanto a lui c’è Ahmed Shah Massud, il “Leone del Panshir”. I due sono legati da un rapporto di parentela, il miglior sigillo per rendere un’alleanza tra afgani indistruttibile: Rabbani, infatti, ha sposato la sorella di Massud. Il governo non ha l’appoggio dell’etnia maggioritaria afgana, quella dei pashtun, e neppure del Pakistan, che non ha mai accettato Massud e tantomeno degli USA, dove il Presidente Bush Sr. è particolarmente sensibile alle questioni petrolifere. L’anno prima aveva lanciato la guerra contro l’Iraq, camuffandola come conflitto morale e definendola più volte una “crociata”. Ed è proprio il petrolio la causa prima della nascita dei Taleban. I giacimenti del Mar Caspio, tra i più ricchi al mondo, fanno gola a molti, ma sono inutilizzabili se non si porta il greggio al mare, dove può essere stivato nelle superpetroliere. Non solo, ma gli oleodotti, passando in uno stato piuttosto che in un altro, possono determinare il peso geopolitico dei singoli governi. L’Iran degli Ayatollah rappresentava la soluzione più ovvia e meno costosa, ma la profonda avversione statunitense verso il governo di Teheran, faceva preferire l’opzione afgana. C’era un solo problema: il governo Rabbani-Massud, rifiutando ogni accordo con le fazioni dei mujahedeen, manteneva il Paese in uno stato di guerra permanente che impediva alle compagnie petrolifere di mettere in pratica i loro progetti. Kabul, che durante il periodo sovietico era stata risparmiata dai bombardamenti, nonostante fosse ora ridotta ad un ammasso di macerie dagli attacchi di Gulbuddin Hekmatyar, armato dal Pakistan e dagli USA, resisteva. Occorreva trovare un’altra soluzione, che non si fece attendere. Nel sud del Paese esisteva da tempo un movimento di studenti delle madrase islamiche, i cosiddetti taleban (da taleb, studente), di etnia pashtun, che avevano già dato prova di abilità militare conquistando la città di Kandahar alla fine del 1994. Per il Pakistan rappresentavano una valida alternativa all’impasse della lotta interna dei mujahedeen, mentre la Casa Bianca li allevava in funzione antiRabbani. Una delegazione Taleban giunse anche negli Stati Uniti per discutere sul futuro governo afgano e i loro rappresentanti ebbero colloqui con i dirigenti della UNOCAL, la compagnia petrolifera USA che aveva vinto l’appalto per l’oleodotto, sconfiggendo i concorrenti argentini della Bribas.
Dapprima il principale finanziatore dei Taleban fu il petroliere saudita Turki bin Faisal (tuttora in ottimi rapporti con Osama bin Laden), attratto dalla prospettiva dell’oleodotto, ma verso la metà del 1996, l’impasse militare cui Massud costrinse gli studenti islamici, convinse bin Faisal a chiudere i rubinetti verso l’Afghanistan. E nell’agosto 1996 a Faisal subentrò Osama bin Laden, che accettò di prendersi cura del movimento, il quale, da quel momento, non ebbe più l’appoggio della Casa Bianca. Il 27 settembre 1996, i tre milioni di dollari concessi da bin Laden ottennero i loro frutti: Kabul, oramai distrutta da quattro anni di guerra civile, cadde nelle mani degli studenti islamici. Massud e Rabbani si ritirarono al nord, dove vive la maggioranza dell’etnia tajika controllando il 15% del territorio. I Taleban, dal canto loro, ricostruirono la società modellandola su leggi coraniche. La vita degli afgani venne scandita dai proclami del Ministero della Promozione e della Virtù, il quale si assicurava che tutti gli aspetti del vivere quotidiano fossero coerenti con le affermazioni del Corano. Al tempo stesso questo stereotipo che dipingeva i Taleban come dei rozzi trogloditi invasati di Dio (o «drogati» di religione, riferendoci la famosa frase di Marx), veniva a cadere una volta che ci si allontanava dalla città. Come accade nei regimi assolutistici, la capitale rappresenta la vetrina dell’ideologia di regime che si vuole offrire al mondo e il dogmatismo teocratico dell’Emirato Islamico, a Kabul diviene legge assoluta. Eppure, almeno al sud, tra le popolazioni pashtun gli studenti trovavano ampi consensi, tanto è vero che l’avanzata travolgente dell’Alleanza Settentrionale in novembre, si è dovuta fermare appena raggiunti i limiti delle aree abitate dalle etnie che la rappresentavano: tajiki, uzbeki e hazara.
La conquista di Kabul da parte delle forze dell’Alleanza, non ha risolto le questioni aperte da anni: la profonda divisione etnica che divide le varie componenti del movimento, la facilità con cui i diversi comandanti militari cambiano campo da un giorno all’altro, il vivo ricordo delle violazioni dei diritti umani e degli stupri commessi dai militari di Rabbani e di Massud su donne e bambine, pende come una spada di Damocle sulla pax afgana. I media hanno mostrato una guerra i cui contendenti sono sempre stati divisi da una linea netta: da una parte i “buoni” (l’Alleanza Settentrionale), dall’altra i “cattivi” (i Taleban), conniventi col terrorismo, odiati dal popolo e dalle donne, barbari incivili che hanno riportato la società ai tempi del medioevo. La realtà è assai diversa; basterà guardare come evolverà la situazione sociale del Paese per rendersene conto. Non esistono “buoni”, non esistono “cattivi”. Ci sono solo afgani che devono fare i conti con la loro storia, la loro cultura, la loro tradizione. Ed è anche per questo che le donne, pur nella loro libertà, continueranno a portare il burqa.

© Piergiorgio Pescali

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